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La Primavera e l’Inverno sono due stagioni completamente opposte, che non sono mai riuscite a trovare la corretta armonia per andare
d’accordo. Fortunatamente esse non devono convivere, infatti, quando compare una, deve umilmente ritirarsi l’altro.
Un giorno il signor Inverno si trovò faccia a faccia con la giovane signorina Primavera. L’anziana stagione, con quella sua aria sapiente prese a dire: «Mia cara amica, tu non sai essere decisa e
determinata. Quando giunge il tuo periodo annuale, le persone e gli animali ne approfittano per precipitarsi fuori dalle loro case o dalle loro tane, e si riversano in quei prati che tu, con
tanta premura, hai provveduto a far fiorire. Essi strappano i giovani arbusti, calpestano senza pietà l’erba ed assorbono ogni sorso di quel sole splendente che, col tuo arrivo diventa più caldo.
I tuoi frutti vengono ignobilmente raccolti e divorati e infine, con il baccano e la cagnara che tutti fanno, non ti permettono neppure di riposare in pace. Invece io incuto timore e rispetto con
le mie nebbie, il freddo e il gelo. La gente si rintana in casa e non esce quasi mai per paura del brutto tempo, e così mi lascia riposare tranquillo.»
La bella e dolce Primavera, colpita da quelle parole, rispose: «Il mio arrivo è desiderato da tutti e le persone mi amano. Tu non puoi nemmeno immaginare cosa significhi essere tanto apprezzati.
È una sensazione bellissima che non potrai mai provare, perché con il freddo che porti al tuo arrivo, anche i cuori più caldi si raggelano.»
L’inverno non disse più nulla e si fermò a riflettere. Forse, essere ammirati ed amati dagli altri, poteva anche essere una bella sensazione.
Per ottenere rispetto ed amore, non serve utilizzare la forza ed incutere paura.
I migliori risultati, si ottengono con la bontà e la sensibilità.
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Una bella mattina di primavera, una bambina uscì di casa per andare a raccogliere dei bei fiori, da regalare alla mamma e al papà. Mentre
stava camminando sulla sponda del fiume, udì delle risa, allegre e spensierate.
La bimba seguì il suono delle voci e salì sulla collina. Più si avvicinava, più si incuriosiva. Ad un certo punto capì che chiunque stesse cantando e ridendo, si trovasse all’interno di una
grotta, non lontano dalla cima della collina. La bimba si avvicinò all’apertura, e per nulla intimorita sbirciò dentro.
Vide un gruppo di Fate e fFolletti, che danzava attorno ad un fuoco.
Dopo un attimo di stupore, la bimba scappò via, per andare a raccontare tutto ai suoi genitori. I due l’ascoltarono sgomenti. Sapevano che le Fate sarebbero tornate la notte stessa, per portare
via la loro piccola: ogni mortale che vede una creatura fatata, è obbligato ad unirsi al Piccolo Popolo.
I genitori non rivelarono nulla alla bimba, ma si recarono immediatamente a consultare una vecchia saggia che abitava ai margini della foresta.
«Le Fate hanno solo una possibilità. Se non riescono a portare via la bambina la prima volta, non potranno più farlo, dovete fare in modo che nella vostra casa, ci sia silenzio assoluto questa
notte. È l’unico modo per salvare vostra figlia» fu la risposta della vecchia saggia.
La mamma e il papà della piccola tornarono a casa e cominciarono ad assicurarsi che porte e finestre non cigolassero, che il pavimento e le scale non facessero nessun rumore, e che la piccola si
addormentasse.
Dopo avere tolto gli orologi dalle pareti, i due si sedettero in salotto ad attendere che la notte terminasse. Quando le Fate arrivarono, la casa era completamente in silenzio. E stavano per
andarsene, che un cagnolino che aveva avvertito la loro presenza, si mise ad abbaiare. Mamma e papà corsero allora nella camera della bimba, terrorizzati.
Il letto della piccola era vuoto, e capirono che non l’avrebbero mai più rivista.
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Ai cui balli notturni presso un bosco
O ad una fonte assiste il contadino stupito,
O forse sogna, mentre sopra di lui la luna
È arbitra e alla terra avvicina
il suo diafano corso
Vi è a Tipperary una delle colline più strane del mondo. C’è un picco sulla sua cima che sembra un berretto da notte di forma conica gettato
negligentemente sulla testa, come quando al mattino vi alzate. Proprio sulla sua sommità vi è stata costruita una sorta di loggia dove, d’estate, la signora che la fece erigere ed i suoi amici si
recavano in gite di piacere; ma tutto ciò fu molto tempo dopo i giorni delle Fate, forse ora è in stato di abbandono.
Tuttavia, prima che la loggia fosse costruita o il terreno seminato, esisteva vicino alla cima della collina un’ampia pastura dove un mandriano trascorreva le sue notti e i suoi giorni col suo
bestiame. Questo luogo era stato un antico Regno delle Fate e il Buon Popolo era indignato dal fatto che la scena dei loro giochi scanzonati e briosi fosse stata invasa dal brutale scalpiccio di
tori e vacche. I muggiti del bestiame offendevano le loro orecchie e la Regina delle Fate della collina decise di scacciare di persona i nuovi arrivati, e state a vedere come fece.
Quando giunsero le notti del raccolto e la luna splendeva chiara e brillante sulla collina e le bestie se ne stavano quiete e silenziose a riposare e il pastore, avvolto nel suo mantello, se ne
stava a fantasticare col cuore rallegrato dalla meravigliosa compagnia delle stelle che splendevano sopra di lui, immerso nella luce che rischiarava tutto il cielo, ella venne a danzare. Veduta
dalla magica collina di Knocksheogowna innanzi a lui, ora con un aspetto ora con un altro, ma tutti egualmente ripugnanti e spaventosi, ella una volta assunse l’aspetto di un grande cavallo,
con ali d’aquila e coda di drago, sibilando e sputando fuoco, poi improvvisamente si trasformò in un omiciattolo zoppo di una gamba, dalla testa di toro e circondato da una fiamma che lo
lambiva torno torno. Poi in una enorme scimmia dai piedi d’anitra e la coda di tacchino, ma non basterebbe tutto il giorno per raccontare tutti gli aspetti che ella assunse.
E poi ruggiva o nitriva o sibilava o muggiva o ululava o lanciava il grido della civetta come nessuno mai aveva udito ruggire, nitrire, sibilare, muggire o ululare a questo mondo. Il povero
pastore si copriva il volto e si appellava a tutti i santi, ma a nulla servì. Con un soffio del suo alito ella faceva volar via il pesante mantello, per quanto forte quello cercasse di stringerlo
e di coprirsene gli occhi, e non un santo del cielo gli prestava la minima attenzione.
E quel che è peggio, non riusciva nemmeno a muoversi, no, nemmeno a chiudere gli occhi, era obbligato a rimanere lì, inchiodato da una forza sconosciuta, lo sguardo fisso su queste visioni
tremende, finché i capelli gli si rizzarono sulla testa e i denti rischiarono di cadergli a forza di stridere.
Il bestiame invece sembrava impazzito, come se fosse pizzicato dai tafani; e tutto questo ebbe termine solo al sorgere del sole. Le povere bestie erano stremate dalla mancanza di riposo e nemmeno
il pascolo servì a ristorarle, inoltre cadevano vittime di un incidente dopo l’altro. Non passava notte che qualcuna di esse non cadesse in una buca e si storpiasse o, addirittura, morisse.
Alcune cadevano nel fiume e affogavano; in una parola, sembrava che queste disgrazie non avessero fine.
Ma a peggiorare la situazione, non si poteva trovare un pastore che attendesse di notte al bestiame. Bastava una sola visita delle Fate per far quasi uscire di senno anche i più coraggiosi. Il
proprietario del terreno non sapeva più che fare. Offriva paga doppia, tripla, quadrupla, ma nessuno accettava per denaro di affrontare l’orrenda visione dell’essere fatato.
Questa si rallegrava del buon esito della sua decisione e continuò le sue burle. Mentre il bestiame man mano diminuiva e nessuno osava rimanere sul posto, le Fate cominciarono a tornare in gran
numero e scherzavano più allegramente di prima, bevendo gocce di rugiada in coppe di ghianda ed apparecchiando i loro banchetti sul cappello di grossi funghi.
Il contadino sgomento cercava invano un rimedio. Si accorgeva che le sue sostanze diminuivano di giorno in giorno, i suoi braccianti erano terrorizzati e il giorno di paga si avvicinava. Non
dovete dunque meravigliarvi se appariva abbattutto e passeggiava tutto triste.
Ora, viveva da quelle parti un uomo di nome Larry Hoolahan, che sapeva suonare la cornamusa meglio di chiunque altro nel raggio di quindici parrocchie. Larry era un giramondo attaccabrighe e non
aveva paura di nessuno. Dategli un po’ da bere ed avrebbe sfidato il diavolo. Avrebbe affrontato un toro impazzito o una belva con le sole sue mani.
Durante una delle sue tristi passeggiate il contadino lo incontrò e a Larry, che gli domandava la causa del suo abbattimento, narrò tutti i suoi guai.
«Se è tutto qui quello che ti cruccia» disse Larry «tranquillizzati. Se pure a Knocksheogowna ci fossero tante Fate quante piante di patate a Eliogurty, non esiterei ad affrontarle. Sarebbe
proprio bella se io, che non ho mai avuto paura di un uomo in carne e ossa, voltassi la schiena ad una ridicola Fata, che non è grande nemmeno quanto un pollice.»
«Larry» disse il contadino «non essere tanto presuntuoso, perché non sai chi ti ascolta; ma se mantieni la tua parola e badi alle mie mandrie per una settimana sulla montagna, potrai vivere a mie
spese finché il sole non si sarà consumato, fino a ridursi a duna fiammella grande come una monetina.»
L’affare fu concluso e, non appena la luna fece capolino dalla sua cresta, Larry salì in cima alla collina. Era stato ospite a casa del contadino ed era tutto imbaldanzito dal liquore di malto.
Così si sedé su una grossa pietra, al riparo di un incavo della collina, la schiena al vento, e tirò fuori la sua cornamusa. Aveva appena cominciato a suonare, che si udì la voce delle Fate,
sovrastante il suono dello strumento, come un fiotto di musica.
Immediatamente esse scoppiarono in una gran risata e Larry poté distintamente udirne una dire: «Che cosa? Un altro uomo sul terreno delle Fate? Va’ regina, e fallo pentire della sua imprudenza» e
poi fuggirono via.
Larry le sentì passare vicino al viso che volavano come uno sciame di moscerini e, alzando gli occhi, scorse tra se e la luna un grosso gatto nero, dritto sulla punta delle zampe a dorso ritto e
miagolava che sembrava un mulino ad acqua. Poi improvvisamente cominciò a gonfiarsi verso il cielo e, girando sulla zampa posteriore sinistra, piroettò finche non cadde al suolo, dove rimase
sotto forma di un salmone, con una sciarpa al collo ed un paio di stivali nuovi.
«Forza bella» disse Larry «se tu balli io suono la cornamusa.» E cominciò. Così lei si trasformò in questo, in quello e in quell’altro, ma Larry continuava a suonare come lui solo ne era capace.
Alla fine ella perse la pazienza, come fanno le donne quando non prestate orecchio ai loro brontolii, e si tramutò in un vitello biancolatte come la panna di Cork e con gli occhi dolci come
quelli della ragazza che amate. Si avvicinò tutta gentile e affettuosa, sperando di coglierlo di sorpresa e di giocargli poi un brutto tiro. Ma Larry non si lasciò ingannare, perche quando lei
gli si avvicinò egli, gettando la cornamusa, le saltò in groppa.
Ora, dalla sommità di Knocksheogowna, volgendo lo sguardo ad ovest verso l’ Atlantico, potete vedere la Shannon, regina dei fiumi, «allargarsi come il mare» e scorrere dolcemente, attraverso la
bella città di Limerick, fino a mescolarsi con l’oceano.
Il fiume brillava quella notte sotto la luna ed appariva stupendo dalla collina lontana. Una cinquantina di imbarcazioni scivolavano su e giù, seguendo la dolce corrente, mentre il canto dei
pescatori si alzava lieto dalle sponde. Larry, come ho già detto, era saltato in groppa alla Fata e questa, approfittando dell’ occasione, spiccò un balzo dalla cima della collina e con un sol
salto rimbalzò sulla Shannon, che pure scorreva a ben dieci miglia dalla base del monte.
Tutto si compì in un solo istante e quando ella atterrò sulla lontana riva, scalciando, scagliò Larry sul soffice terreno. Non appena questi si fu rialzato la fissò in volto e, grattandosi la
testa, gridò: «Ben fatto, parola mia! Non è stato un balzo da poco per un vitello!»
Ella lo guardò per un momento e riassunse poi il suo aspetto. «Laurence» disse «sei un tipo coraggioso, vuoi ritornare da dove sei venuto?»
«E così farò» disse costui «se me lo permetterai.»
Mutatasi così di nuovo in vitello, di nuovo Larry le saltò in groppa e con un altro salto tornarono in cima a Knocksheogowna. Ripreso nuovamente il suo aspetto la Fata gli disse: «Hai dimostrato
un tale coraggio, Laurence, che finché pascolerai il bestiame su questa collina, non sarai mai più molestato da me o dai miei. Sta albeggiando; va’ dal contadino e riferiscigli quanto ho detto, e
se c’è qualcosa che io possa fare per te chiedi e sarai accontentato.» Così dicendo svanì e mantenne la sua promessa di non visitare più la collina durante la vita di Larry, tuttavia egli non le
chiese mai nulla. Suonava la cornamusa e beveva a spese del contadino, sonnecchiava vicino al camino, gettando di quando in quando un’occhiata alla mandria. Infine morì ed è sepolto in una verde
vallata della bella Tipperary, ma se le Fate siano tornate alla collina di Knocksheogowna dopo la sua morte, è più di quanto si possa dire.
La collina di Knocksheogowna, la cui posizione è accuratamente descritta, può derivare il suo nome dalla leggenda, oppure tale leggenda deriva da esso, infatti la traduzione letterale di tale
nome è “la collina del vitello fatato”.
Olaus Magnus ci dice che «viaggiatori notturni e guardiani di greggi e mandrie possono essere accerchiati da molte apparizioni strane». La figura di «un salmone con una sciarpa attorno al collo
ed un paio di stivali nuovi» forse potrebbe apparire un po’ troppo assurda, ma è opportuno riferire la leggenda come viene raccontata, soprattutto perché costituisce un esempio delle
stravaganti metafore che gli irlandesi amano tanto.
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Nella conca di Prêz si possono rilevare le tracce di un antichissimo lago, la cui memoria si perde nel tempo. Neppure i più vecchi lo videro
con i loro occhi ma, per sentito dire, raccontavano che, nei tempi dei tempi, sulle rive ridenti d’erbe e fiori viveva in una grotta una Fata.
Con la gente non era né buona né cattiva, ma si prendeva cura del lago, così le acque, sempre limpide e pure, donavano piacevole frescura ai boschi circostanti e, defluendo, irrigavano i campi e
i prati, che erano verdi e rigogliosi.
Della Fata i montanari conoscevano soltanto la voce, perché, quando era felice, cantava, ed il suo canto dolcissimo si spandeva per tutta la vallata. Si diceva che fosse assai bella, ma nessuno
l’aveva mai accertato coi suoi occhi, poiché la Fata non voleva esser vista ed evitava la presenza umana, spesso trasformandosi in serpe, per nascondersi meglio.
Un giorno due pastorelli, che sedevano tranquilli al riparo di una roccia, udirono levarsi un canto a non molta distanza da loro.
«È una donna che canta» disse il maggiore. «Ma non conosco nessuna donna che sappia cantare così.»
La voce s’avvicinava. I ragazzi rimasero immobili, in ascolto, trattenendo persino il respiro. Quando la melodia si spense, nessuno dei due si azzardava a parlare, per timore d rompere
l’incanto.
Ed ecco che la Fata sbucò da un cespuglio, avvolta come in manto dai lunghi capelli dorati. I pastorelli non avevano mai visto una creatura di tanta bellezza, né chioma così lucente, né occhi
simili a quelli, del colore del cielo specchiato nell’acqua.
«È la Fata del Lago…!» bisbigliò il più piccino.
«Ssssst!» lo zittì l’altro, timoroso di spaventarla.
Troppo tardi: la Fata si era accorta della loro presenza. Si coprì anche il volto con i biondi capelli e fuggì verso il lago, così rapida e leggera che l’erba non si piegava neppure sotto i suoi
passi.
Seguendo il suo primo impulso, i pastorelli la inseguirono, ma la persero in breve di vista e, giunti sulla riva, si fermarono, per cercare una traccia che non poterono trovare. Ad un tratto,
sull’altra sponda del lago, scorsero una grossa serpe dalle squame d’oro che brillavano al sole. Non sapevano che ci fossero serpenti così grandi, fuggirono spaventati, rinunciando a cercare la
Fata.
Per giorni e giorni non si sentì più cantare in riva al lago, ma spesso chi si trovava a passare di lì avvistava la serpe, che tosto si sottraeva agli sguardi con guizzo repentino.
Un giorno un cacciatore di Fontainemore, la sorprese mentre si sporgeva da una pietra sull’acqua per contemplarvisi, come in uno specchio. Era lì, immobile, senza alcun sospetto, distesa sulla
roccia, con le sue scaglie dai bagliori d’oro. L’uomo imbracciò il fucile e sparò un colpo. Colpita a morte, la serpe si lasciò scivolare nel lago.
In breve le onde ribollirono di sangue. Poi, lentamente, il livello dell’acqua calò, i flutti presero a defluire nel torrente Pacolla, e di lì si riversarono nel Lys, tingendolo di
rosso.
Con la Fata morì anche il suo lago. Sorgenti fino allora abbondanti si inaridirono all’improvviso. La conca di Prêz si prosciugò e tutto, attorno, intristì poco a poco.
Sulle rive scomparve ogni traccia di vegetazione; lungo il declivio, non più irrigato, il suolo si fece arido e brullo…
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Le Fate, si sa, sono esseri impalpabili e sensibili, che vivono di preferenza nei boschi ed ovunque vi sia vegetazione di cui prendersi cura,
poiché una tra le loro funzioni, è proprio quella di seguire tutti i delicati processi di generazione e rigenerazione di piante, fiori ed alberi.
Le Fate amano molto condividere le loro danze e i loro giochi con altri Spiriti della Natura che abitano la Terra e gli altri Elementi, e in generale sono attratte da tutto ciò che è piacevole e
leggero, compresi i pensieri, mentre rifuggono le atmosfere cupe e tristi che le appesantiscono, levando loro luce e vitalità.
Queste Fate che presiedono alla vegetazione, nascono generalmente nelle notti di Luna Piena: quando un raggio di Luna incontra una goccia di rugiada, si forma come una nuvoletta di vapore
opalescente, che si addensa fino a diventare una sorta di minuscolo batuffolo, un bozzolo soffice e scintillante fatto dei sogni più belli, dal quale con il primo raggio di Sole, emerge una nuova
Fata circondata dal suo alone luminoso.
Una notte nel Bosco, proprio mentre la Luna nutriva coi suoi raggi il candido bozzolo, nel quale si stava formando una Fatina vegliata dagli Spiriti della Natura, passò una enorme nube nera che
oscurò completamente l’astro e la sua luce. Non era una nube qualunque, fatta di pioggia, lampi e tempesta.
Era una nube terribile che, passando sulle città degli uomini, si era saturata di rabbia, gas e frenesia, di rancore e rumori assordanti, di tutte le emozioni più corpose e grevi, di tutti i
pensieri violenti. In due parole, puro veleno.
Al passaggio della nube davanti alla Luna, immediatamente il bozzolo iniziò a sussultare e a contrarsi, e la sua luce iniziò ad affievolirsi. Invano Fate, Elfi, Gnomi e Folletti si prodigarono
intorno all’embrione di Fata: una cosa simile non era mai accaduta, e nessuno sapeva cosa fare. Non restava che attendere l’alba.
L’alba giunse, e col primo raggio di Sole, l’involucro, ormai simile ad un grumo di ragnatela rinsecchita, si ruppe. Tutti trattennero il fiato, e alla vista della creatura che faticosamente
fuoriuscì dal bozzolo, non riuscirono a trattenere un gemito di orrore: era un essere informe e inquietante, senza contorni definiti, una Fata Scura, densa e stropicciata come non se n’erano mai
viste prima, dal viso e dal corpo segnati da solchi ancor più scuri, che la rendevano simile ad un frutto avvizzito.
Ammutoliti dallo stupore e dal timore, le creature del Bosco indietreggiarono svelte di un buon passo, distanziandosi dall’ultima nata. Questa percepì il freddo e la distanza, e divenne ancor più
informe e rinsecchita.
«È davvero brutta con quelle rughe…!» mormorò una Fata Azzurrina, e sul volto della Fata Scura, comparvero immediatamente altri solchi.
«È cosi scura e densa!» fece eco un’altra Fata, e Scura divenne ancor più scura e densa, e si accigliò.
«Sembra così goffa e contorta per essere una Fata…» disse uno Gnomo, e Scura si sentì intorpidire le gambe già malferme, finendo carponi a terra.
Era appena venuta al mondo e non capiva cosa le stesse accadendo, ma di certo non era affatto piacevole.
«E questo è niente! Guardate, senza luce com’è, le piante appassiranno al suo tocco!» gridò una Fata Verde, allarmando tutta la comunità del Bosco.
«E i semi non germoglieranno!» terminò un’altra.
Scura, disorientata, si guardava intorno mentre il suo sguardo si faceva sempre più torvo e, chissà perché, offuscato.
«Una Fata con questo aspetto, non può che essere malvagia o portare sfortuna…» bisbigliò uno Gnomo, sottovoce sì, ma non abbastanza. Scura si voltò dalla sua parte, proprio quando una grossa
ghianda si stava staccando dalla quercia sovrastante, e che colpì lo Gnomo dritto sulla testa.
A quel punto ci fu un parapiglia generale: frattanto che alcuni Gnomi soccorrevano l’incauto sfortunato, Fate e Folletti si abbandonavano ad animati commenti.
«Allora è vero che porta sfortuna!» faceva uno. «È lei stessa una sfortuna per la nostra comunità!» diceva un altro, e così via.
Scura sentiva dolore dappertutto, intanto che il corpo le si raggrinzava ancora, e che un dolore al torace si faceva sempre più acuto; il suo corpo si accartocciava e il suo sguardo diventava
sempre più annebbiato, fino a che un liquido salato prese a scorrerle dagli occhi lungo il viso.
Poi qualcosa in lei si spezzò, e con un urlo che raggelò i presenti, fece un balzo e si trascinò via, barcollando nel folto del Bosco.
Mentre passava accanto al ruscello, l’istinto le suggerì di specchiarvisi, per vedere cosa spaventasse tanto chi l’aveva accolta, ma le Ondine stesse, alla sua vista arretrarono, cosicché l’acqua
si ritirò. Era veramente troppo per la piccola Fata Scura che, con un grugnito insieme sdegnoso e rassegnato, sparì rifugiandosi in quell’angolo scuro del Bosco, dove il Sole non batteva
mai.
Un Elfo dal cuore sensibile, aveva assistito pensieroso alla sequela di avvenimenti che avevano gettato il Bosco nel panico, panico che, come ben si sa, non si addice molto agli Spiriti Fatati.
Gli Elfi, creature che amano profondamente la compagnia delle Fate, sono fortunatamente molto rapidi nel captare l’essenza degli eventi e a formulare soluzioni.
L’Elfo aveva notato che la piccola Fata Scura era peggiorata a vista d’occhio, dopo la sua nascita, come se avesse dato corpo ai timori e alle previsioni dei suoi compagni sconcertati. E
indubbiamente, era stato l’influsso di quella nube, a causare questo insolito fenomeno. L’Elfo si mise allora alla ricerca della Fata, certo di poter rimediare alla situazione, e la scovò
raggomitolata nel freddo e buio angolo del Bosco, dove crescevano soltanto i funghi velenosi.
L’Elfo non aveva paura di Scura, perché aveva il cuore leggero come l’Aria e l’Aria non si può ferire, quindi le si avvicinò e cominciò a soffiarle attorno, piccoli vortici leggeri come lui,
tentando di solleticarla per farla almeno sorridere. Ma Scura non ne voleva sapere, e con uno “sgrunt” sì girò dalla parte opposta. Allora l’Elfo volò a raccogliere dal fiore più vicino, una
goccia di nettare dolcissimo e lo offrì alla Fata, intrufolandosi tra le foglie marce che la celavano.
Scura si irritò ancor di più e, per scacciare l’intruso, cercò di colpirlo, ritrovandosi tutta imbrattata di nettare che suo malgrado, così assaggiò. Tutta quella dolcezza sembrò placare il suo
tormento, e finalmente Scura si addormentò.
Nel frattempo l’Elfo aveva riunito l’assemblea, esponendo un piano che aveva convinto gli Spiriti della Natura abitanti nel Bosco. Tutti quanti, dispiaciuti per essersi lasciati travolgere dalle
loro paure e per aver abbandonato a se stesso un membro della comunità del Bosco in difficoltà, si misero all’opera, cercando di aiutare quella piccola Fata Scura che forse essi stessi,
inconsapevolmente, avevano contribuito a far diventare un mostro.
Fate, Gnomi, Elfi e Folletti, lavorarono tutto il giorno per sfoltire la vegetazione che, nel luogo in cui Scura si era rifugiata, ostacolava il passaggio della luce.
Verso il tramonto, trasportarono nel luogo in cui Scura giaceva, una gran quantità di profumati petali di fiori dai più bei colori, e senza svegliare la piccola, li sostituirono alle foglie
avariate che la nascondevano alla vista. Poi la vegliarono tutta la notte e, mentre la luce della Luna che filtrava tra i rami e le foglie la accarezzava dolcemente, cantarono per lei.
«Sei una Fata bellissima…» intonava un Elfo; «…luminosa e leggera…» proseguiva una Fata; «…Sei sensibile e flessuosa…» cantava qualcuno; «…gentile ed elegante…» concludeva qualcun altro, e così
in coro, per l’intera notte, gli Spiriti Fatati del Bosco tesserono gli elogi di quella piccola Fata, trasmettendole dal profondo del cuore parole e pensieri accoglienti, colmi d’amore e di
tenerezza.
Giunse l’alba, e la Fatina si svegliò con uno strano solletico nel torso. Il dolore era un ricordo lontano, forse un brutto sogno. Qualcosa in lei era mutato, e nello stiracchiarsi del risveglio
percepiva il suo corpo trasformato, leggero. Le Salamandre dei primi raggi di Sole la riscaldarono, mentre timida faceva capolino tra bellissimi colori che non aveva mai visto.
Agli occhi della comunità del Bosco, che aveva vegliato tutta la notte, apparve una bellissima Fatina Lilla e Rosa, luminosa, titubante e stupita almeno quanto loro, di un tale miracolo di
trasformazione, operato dal potere dell’amore e della fiducia, trasfusi da tutti quei cuori sinceri, riuniti insieme.
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brano tratto da “La Storia di Lot”
[...]
Il giorno dell’ultima battaglia, il primo degli Angeli della Dea discese in nome della madre per confortare
le razze, prese la spada dal fodero di Arlesch il temerario, che era
comandante Umano delle legioni razziali, ed iniziò a combattere al loro fianco.
Egli venne chiamato Nemesh, il Vendicatore. La Dea era con loro, ed essi vinsero il male comune.
La Notte della vittoria tutti festeggiavano secondo la loro natura, ma tutti invocavano il nome della Dea ed Ella ne fu compiaciuta, mostrò ancora il suo viso alle sue creature e la festa fu
grande e durò sette giorni e sette notti.
Quando i festeggiamenti terminarono, la Dea si trovò a passeggiare con Nemesh che le chiese di essere trasformato in Umano. La Dea pianse lacrime di tristezza che caddero su ranuncoli selvatici,
ma sapeva che Nemesh serviva alle razze, come lui aveva necessità di vivere con loro. Impose le mani celesti sulla fronte di Nemesh e, mentre le tre Lune osservavano, polvere argentea discese dall’Angelo ormai spoglio della sua
immortalità che, rinato nella carnalità, vide con occhi Umani il mondo e la creazione e si commosse. Dai ranuncoli intrisi della polvere angelica e delle lacrime celesti, nacque per la prima
volta una creatura particolare: possedeva ali come gli Angeli ma sembrava una farfalla, e la Dea la guardò benevola imponendole il nome di FATA.
Essa viveva in solitudine e parlava con piante ed animali; era unica nel suo genere, e la Dea decise di prendere lucciole dai cespugli e trasformarle in quello che la creatura era. Le Fate ebbero
così un’aura rilucente attorno al loro corpo, e si moltiplicarono rivelandosi alle altre
razze…
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Racconto di una Fata di Lot…
«Mi chiedete dunque di raccontarvi chi sono e da dove vengono le Fate di Lot?
Una domanda quasi impertinente, Messere, ma il capriccio che oggi qui mi guida, fa sì che io desideri rispondere alla vostra domanda. Badate, ho scelto di rispondervi e vi racconterò, se saprete
conservare il silenzio ed ascoltare senza porre questioni.»
La Fata, seduta su di un masso bianco
posto ai bordi della cascata, scrolla leggermente la testa, mentre un sorriso dolce ed ironico le illumina i lunghi occhi orientali dalle sfumature di foglia nuova. Incrocia con grazia le braccia
intorno alle ginocchia rialzate, e fissando un punto lontano, narra con voce sommessa: «Siamo belle, più belle infinitamente delle donne mortali, più fragili degli Angeli, più appassionate e sensuali delle Elfe sottili, che passano con passo di danza senza quasi piegare gli steli dell’erba. Veniamo da terre d’incanto e primavera, in cui solo di rado giungeva un mortale, e sempre
per nostra volontà. Quelle terre sono ormai lontane, perdute in una nebbia di sogno e di malinconia, e non vi faremo ritorno per lungo, lungo tempo ancora, se il tempo ha valore per noi, che non
invecchiamo e non moriamo.»
Mentre racconta, la Fata, pensierosa, arrotola su di un dito sottile una ciocca di capelli, che come un mantello lucente le coprono le spalle. La guardo e penso che non sia mai esistita una
donna di tale bellezza, tanto squisita da sembrare davvero un sogno avverato, dagli occhi colmi di mistero all’eleganza rarefatta dei gesti, tutto in lei sa toccare le corde più
segrete dei cuori e farle vibrare all’unisono con la propria armonia.
D’un tratto si alza e il morbido fluire della veste, sembra stabilire un accordo sottile con il fluire dell’acqua dalla cascata. «Mi chiamano Fata Madre, e le Fate mi obbediscono, o meglio,
- sorride – scelgono di obbedirmi. Non chiedete perché proprio io sia stata scelta. Così è, e tanto vi basti. Ma il mio nome è Ayanami, e come tutte le Fate, anch’io ho la mia
inclinazione.»
Una suadente e languida pausa. «Mi chiedete cosa siano le inclinazioni, non è vero? Lo leggo nella luce più viva del vostro sguardo. Ebbene, dovete sapere che le Fate giungono alla vita sul
piano eterico e sul piano reale nello stesso istante, ma è sul piano
eterico che noi viviamo per la maggior parte del nostro tempo. So che questo sia cosa difficile da comprendere, è un mondo senza orizzonte, eternamente immerso in una luce d’alba e tramonto,
senza terreni, fatto della sostanza di cui son fatti i sogni, ecco, è la nascita al reale che determina l’inclinazione del carattere di una Fata. Ogni Fata ha in sé le caratteristiche della
nostra razza, l’allegria, il capriccio, la sensualità… eppure ognuna risponde alle caratteristiche del momento in cui, per la prima volta, scendendo dal piano eterico ha acquisito forma umana e
posato il piede sul terreno. Così incontrerete Fate
Blu, dai lunghi capelli corvini e dagli occhi di acquamarina, nate sui bordi dei fiumi e vicine alla spuma dei laghi, sognatrici e romantiche, esili come i giunchi sul bordo del rivo ed
altrettanto flessibili. Le vedrete sostare sulla riva del mare in burrasca e conversare con le Sirene, ridere ai bordi delle cascate e cantare nella pioggia quando scende sottile come fili d’argento in primavera. Fate attenzione, sono a volte malinconiche e covano a lungo il
rancore, e il loro raro sorriso può rubarvi il cuore… Oppure vi farete sedurre da una Fata Verde, nata nel cuore della primavera su un prato umido di rugiada? Dai suoi riccioli
color del rame e dalle sue risate ricche come il canto dell’usignolo. Saprete capire il suo amore per ogni albero, per ogni fiore e frutto, per ogni stelo d’erba? È facile amare una Fata Verde, la speranza che illumina i suoi occhi, la
gioia che sa portare nella vita di chi la incontra, è difficile lasciarla andare e non desiderare di possederla… ma vano è il desiderio dei mortali di possedere una Fata… Dolci ed allegre, ricche
di armonie segrete sono le Fate Gialle, dai lunghi riccioli color del grano, nate nel mezzogiorno dell’estate più bella. Se guarderete con attenzione in un campo di grano, tra stelo e stelo, dove
nascono i papaveri e i fiordalisi color del cielo, le vedrete inseguire farfalle o
cantare sedute nel cerchio, o inseguire come cuccioli i raggi del sole che
filtrano tra le foglie. Ricche di monili d’oro e di gemme intrecciate alla chioma, vi insegneranno, se le ascolterete con il cuore puro, la gioia infinita della gioia stessa, dei sorrisi regalati con il cuore puro, e il segreto di
aprirsi agli altri come un fiore ai raggi del sole. Alla dolcissima luce della luna nascono
le Fate Bianche, colme di grazia e malinconia, dalle chiome lisce e chiare che scendono come l’acqua di un ruscello sulle spalle eleganti. Le vedrete danzare tra i cristalli di neve o nascondersi nei boccioli dei gelsomini. Così delicate che potrete con
una sola mano circondarne la cinta, e così belle che non potrete ardire di alzare nemmeno lo sguardo sulla loro timida grazia.»
Ayanami mi guarda con gli occhi colmi di sapiente mistero, e ridendo continua: «E vedrete camminare con noi e danzare nel nostro magico cerchio, le Fate Nere, quelle toccate dal vento di burrasca e dal temporale, belle e cupe come il cielo durante le
tempeste ed altrettanto temibili. Rapide nell’ira e terribili nella vendetta, possono far tremare le vostre mani con un solo sguardo degli occhi di ametista, o con una sola, sprezzante,
alzata delle belle spalle. Potrete sognare di addormentarvi per una notte nel mare nero e lucente delle loro trecce, ma quando vi sveglierete, potreste scoprire che sulla terra sono trascorsi
mille anni.»
La risata di Ayanami la bella tintinna come un campanello lontano, e il tocco leggero della sua mano sulla spalla mi fa tremare tanto, che a stento riesco a leggere ora ciò che ho scritto.
«Qualcuno ha detto di me, tanto tempo fa, che indosso la bellezza come un manto, e che guardo il mondo con gli occhi colmi di un segreto divertimento… ebbene, oggi voi mi avete offerto
motivo di riso e divertimento, e di questo vi sono grata. Vi chiederete che facciamo nel Granducato di Lot… lontane dalle nostre terre e dal nostro destino? Ebbene, viviamo… ché nelle Fate la
gioia stessa della vita è più inebriante dell’ambrosia dei miti. E, poiché amiamo i mortali, per loro e per il nostro capriccio sappiamo creare piccole magie. Delicata e fragile è la
Magia delle Fate, perché vive di immaginazione, ed opera su quel
che i sensi dettano a coloro che la subiscono o l’implorano. Non siamo Maghe o Streghe dai
potenti incantesimi, e le nostre magie sono solo il miraggio di cosa potrebbe accadere se solo i mortali lasciassero libera la loro mente e sgombro il loro cuore. Per questo, la nostra magia non
può cambiare il mondo, ma solo l’impressione che del mondo voi avrete… potrà farvi credere di essere diverso, ma non mutarvi. Per questo, dovrete accondiscendere all’opera magica, e noi non
potremo imporla, ma…» Ayanami alza un dito e diviene ai miei occhi alta e bella e severa. «Ricordate» sussurra, appoggiando dolcemente le sue labbra sulle mie, «guardatevi da un bacio di
Fata.»
E mentre ridendo la bella Ayanami scompare, intorno a me restano solo le piccole stelle bianche delle lucciole…
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La Regina delle Rose viveva un tempo in un giardino segreto. Elegante e profumata, la sovrana aveva tutte le caratteristiche più belle dei
fiori dai quali prendeva il nome.
Viveva su una collina, circondata da un roseto ricco e in perenne fioritura.
Tutti gli abitanti del luogo le volevano bene e le riconoscevano estrema saggezza, le richiedevano consigli e la invitavano alle feste, dai matrimoni ai compleanni. La sua vita scorreva
tranquilla, beata, si godeva le belle giornate del suo giardino e stava al sole solo quando non bruciava eccessivamente, al fine di non ledere la sua pelle perfetta. Non aveva mai avvertito il
bisogno di uscire dal suo giardino incantato, perché lì, c’era tutto quel che la rendeva felice.
Oggi, ormai anziana, è sempre stupenda e rammenta con orrore il tempo nel quale si innamorò. Il suo cuore puro di fiore, fu catturato dalla bellezza di un giovane suddito.
Lui andava a recarle visita tutti i giorni, insieme conversavano e sognavano il futuro. Un giorno il ragazzo le manifestò che avrebbe desiderato sposarla, ma non poteva assolutamente presentarla
agli amici. Lei era troppo bella, troppo perfetta, troppo diversa da tutti.
«Dovrai cambiare» pretese il giovane «e adattarti a noi. Se cercherai di essere meno buona e gentile, meno solare e vivace, gli altri non mi faranno notare quanto siamo diversi.»
La Regina delle Rose fu molto colpita, interdetta, non riusciva a spiegarsi come poteva essere una buona cosa, diventare meno bella e gentile.
Un giorno chiamò il suo innamorato e gli disse: «Se tu mi ami, devi avere il coraggio di accettare tutto ciò che sono. E se sono diversa dai tuoi amici, forse loro mi apprezzeranno per questo,
altrimenti non vale la pena di conoscerli. Non cambierò per te, non rinnegherò mai quello che sono.»
Da allora i due non si sono mai più visti, e la sovrana è ancora serena, contenta di non aver accettato di diventare qualcun altro, pur di essere accettata…
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All’origine dei tempi, il mondo era privo di consistenza. Due sole entità riempivano il tempo e lo spazio: la Luce e l’Oscurità. La loro
solitudine era grande, così decisero di unire le loro forze per creare un mondo, degli esseri, qualcosa su cui regnare. E si innamorarono…
Ma il mondo da loro creato, gli esseri loro figli da essi a lungo desiderati, non potevano accettare il loro amore, non potevano vedere annullarsi Bene e Male, non potevano vedere il proprio
mondo logorarsi fino alla distruzione. E pertanto insorsero, richiedendo ai propri genitori di lasciarsi per farli sopravvivere.
La Luce, vedendo il male che il loro amore causava ai suoi figli, decise di lasciare l’Oscurità. E per non soffrire più, si rifugiò in una zona del cielo da dove poteva controllare i suoi figli
ed assicurarsi del loro benessere. L’Oscurità invece, che non avrebbe mai lasciato la Luce per nulla al mondo, sentì l’odio crescergli dentro, il tradimento della propria stirpe che avrebbe
sacrificato per il suo amore, si rifugiò nel buio delle profondità della terra. Finché un giorno, non decise di vendicarsi e chiese alla Luce di dividere il tempo trascorso in cielo. La Luce
divenne giorno, ma al tramonto doveva cedere il passo all’Oscurità totale della notte.
Tuttavia, gli esseri da loro creati insorsero nuovamente, ed implorarono la Luce affinché non li abbandonasse al buio totale, di intercedere per loro verso l’Oscurità per attenuare il nero della
notte. Il prezzo richiesto dall’Oscurità fu altissimo: la sua furia esplose ed Egli, rancoroso verso i suoi stessi figli, li punì. Scelse i più saggi, i più giusti, i più valorosi e i più amati
tra di loro, ne invase il cuore con il proprio buio e lo inaridì. Ma permise alla Luce di illuminare la nera notte.
La Luce creò la pallida Luna, e la pose nel nero cielo per illuminare la notte. Dipoi pianse, perché vide i suoi figli mutare a causa della vendetta del suo amante. E l’Oscurità catturò tutte le
lacrime della sua amata e le pose nel cielo, vicino alla Luna, dove divennero piccole stelle luminose.
Per notti la Luce pianse, e tutte le volte le lacrime divennero stelle che illuminarono di poco la notte, finché una notte, una piccola lacrima sfuggì alla cattura precipitando verso la terra.
L’Oscurità ne seguì la scia luminosa per catturarla, quando il pianto di un bimbo lo distolse dal suo compito; seguì il pianto e giunse nei pressi di una piccola casetta, dove una mamma cullava
il proprio bambino.
Fu allora che Egli, alzando gli occhi al cielo vide la scia luminosa e indicandola al bambino gli disse: «Guarda, piccolo mio, una stella cadente, una nuova vita sta per venire alla luce.»
L’Oscurità riprese la sua ricerca e giunse nei pressi di una radura segreta. Lì, al centro, la piccola lacrima si era fermata su di un fiore e risplendeva pallida, e l’Oscurità si intenerì, il
suo cuore si riaprì verso l’amore e soffiò gentilmente su quel piccolo fiore e sulla lacrima della sua amata; e da quella lacrima caduta dal cielo, da quel piccolo fiore nacque la prima Fata; e
prima di lasciare quella valle, l’Oscurità ne rese l’accesso impossibile agli altri esseri.
«Tu, mia ultima creatura, avrai questa Valle per vivere. Qui, altre tue simili nasceranno. Tu baderai a loro, al loro benessere. Ti pongo Regina sulle tue simili. Ti pongo Regina di questa Valle
Incantata. Sta solo a te, ora, decidere di come usare la tua vita» diss’Egli, e si ritirò nella profondità della Terra, chiamando a sé i figli che sceglievano di seguirlo, lasciando alla Luce il
compito di governare il mondo che un tempo era stato di entrambi. Ma non le disse della Valle Incantata, non le disse della nascita della loro ultima creatura. Che, al sicuro nella Valle,
cresceva; e vedeva nascere altre sue simili, le sue compagne di giochi.
Divenne la loro Madre e si prese cura delle sue sorelline più piccole, finché un giorno scoprì l’ingresso della Valle ed uscì, decidendo di esplorare il mondo a lei sconosciuto: fu allora che la
Luce si accorse di quella creatura che mai aveva visto… il suo stupore fu enorme, e cominciò a seguirla ed osservarla per conoscerla.
Ed un giorno le apparve sotto le sembianze di una maestosa e luminosa dama: «Chi siete, piccolina? Da dove venite?»
La Fata guardò quella dolce signora, e con un sorriso la portò attraverso le valli e i boschi, i fiumi e le montagne, fino all’ingresso della piccola Valle nascosta. La Luce ammirò la bellezza e
la tranquillità di quei luoghi, la gioia che le fatine le trasmisero immediatamente.
L’incanto che manteneva celata la Valle agli estranei era spezzato, presto gli altri esseri sarebbero giunti, portando il caos nella tranquilla vita delle Fate. E la Luce decise di evitare tutto
ciò, portò perciò la Valle lì dove nessuno sarebbe mai riuscito a raggiungerla, lì dove nessuno avrebbe mai potuto fare del male a quelle creaturine.
E la portò vicino alla pallida Luna, e la portò vicino al possente sole, e la circondò di stelle, le sue mancate sorelle. E la vita delle Fate proseguì serena e felice, ma ancora adesso in molte
lasciano quell’isola celeste per scendere sulla Terra e vivere, insieme alle altre razze, un breve periodo della loro eterna vita.
Anche la Prima Fata talvolta vola sulla Terra, e si confonde con gli abitanti che ignorano il più delle volte la sua vera natura. Lei li osserva attentamente, ma immancabilmente ad ogni umana
Primavera torna nella Valle; perché è lì, che la vita di ogni Fata comincia…
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C’era una volta, in un’antica foresta ai piedi dei monti, tra i ruscelli e le praterie più verdi, una casetta isolata e misera, nella quale
viveva una povera fanciullina orfana col suo gattone nero Veggente, un bell’animale dal manto color della notte, e dagli occhi accesi e attenti come due lune perpetue e piene.
La fanciullina, che si chiamava Iris, era dotata di una bellezza fuori dal comune. Infatti i suoi lunghi capelli d’oro, scivolavano dolcemente lungo le spalle esili, e due occhioni d’un blu
acceso rischiaravano con quella luce interna, anche il bosco più ombroso nella notte più nera.
Iris amava fare lunghe passeggiate con Veggente lungo le rive dei ruscelli, nei fitti boschi di abeti, sui monti ricoperti di fiori, tra le radure isolate. Durante queste escursioni, la
fanciullina amava narrare al suo gatto, storie meravigliose e remote di Elfi che un tempo popolavano quelle montagne, di Fate che comandavano i fiori, di Gnomi che pullulavano tra le enormi
radici degli olmi.
Iris amava talmente queste leggende, raccontate in un’ epoca ancora felice dalla nonna, che sempre sperava d’incontrare nelle sue uscite le creature magiche, e talvolta addirittura le pareva di
scorgere, qua e là tra i cespugli di biancospino o di ginepro, qualche lume misterioso, o addirittura di udire tra i gorgoglii dei ruscelli, una risatina cristallina.
Iris ovviamente sapeva che quelle visioni e quei suoni erano solo frutto della sua fantasia ma, nella sua solitudine, come fanno tutti i bambini infelici, si chiudeva in quel guscio di sogni
insieme a Veggente, che pur essendo un gattone taciturno e serioso, non la lasciava mai sola e le teneva compagnia con la sua ombrosa presenza.
Una bella sera d’estate, o meglio, proprio la sera del Solstizio d’ Estate, Iris non riuscendo a prender sonno a causa di uno strano suono, che le pareva di udire in lontananza e che fendeva
l’aria come un’armonia molto acuta, decise di uscire e di scoprire da dove provenisse un tanto singolare rumore. Indossò così la sua bella vestaglia fiorita, che aveva intessuto lei stessa coi
fiori di bosco, e seguita da Veggente, uscì nella notte.
In quella notte di mezz’estate, il cielo era limpido come uno specchio e mostrava orgoglioso le sue perle splendenti e silenziose, esattamente come gli occhi di Veggente.
La Luna, più bella che mai, troneggiava nel blu del cielo e rischiarava con la sua luce argentea, le folte cime degli abeti scuri, creando trame d’oro sui sentieri addormentati. Ammirando il bel
cielo, Iris e Veggente si avviarono ad “orecchie tese”, verso la parte del bosco da dove proveniva il suono. Avvicinandosi sempre più, Iris si rendeva conto che il misterioso trillo assomigliava
molto al ritmo di cento campanelli festosi e, sempre più curiosa, percorse l’ultimo tratto di foresta che la separava dal mistero.
Scorse finalmente una radura, e prudentemente si nascose con Veggente dietro un folto cespuglio di pruni, potendo dal suo nascondiglio spiare, sbalordita, lo spettacolo che le si presentava
dinanzi: proprio in mezzo alla radura, bruciava un enorme falò le cui fiamme, anziché essere rosse, s’innalzavano al cielo nelle loro lingue azzurrine, emanando, invece di acre fumo, un aroma di
muschio soave.
Attorno al fuoco, cosa incredibile a vedersi e a narrarsi, si stringevano un’infinità di fatine che danzavano, agitando campanellini colorati nell’aria lieve, e che cantavano melodie così dolci,
da incantare anche la pietra più dura.
Le fate erano piccole ed esili, i loro volti erano simili a quelli delle bamboline di porcellana, così delicati e minuti, che sarebbe bastato un soffio di vento per cancellarli; le loro vesti
erano sete intrecciate di rugiada, e le loro ali parevano essere state ritagliate da una soffice nuvola notturna, così come i lunghi capelli argentei, che volavano nell’aria e che danzavano
anch’essi, con le allegre fiamme del fuoco azzurrino. Ammutolita ed eccitata più che mai, Iris usciva, senza accorgersene, sempre di più allo scoperto, approssimandosi imprudentemente al fuoco
delle fate, come rapita da quel gioco di luci e colori, da quei suoni tanto soavi e trasognanti.
Senza che se ne rendesse conto, alla fanciullina sfuggì un gridolino di gioia sincera, che riecheggiò nella radura e nel cielo, come l’urlo di una rondine in primavera.
D’improvviso dal fuoco fatuo, scaturì come un turbine turchino che avvolse la radura e travolse Iris, la quale si ritrovò come sprofondata in una nuvola leggera, cullata da canti amici e
riscaldata da un fuoco odoroso. Intravvedeva in quel celeste che la circondava, le sagome impalpabili ma presenti delle fatine che cantavano e la guardavano dolcemente, accarezzando anche
Veggente che, sdraiato su una nuvola di fumo chiaro e per nulla intimorito o meravigliato, sonnecchiava come se si fosse trovato in un bel praticello assolato.
Ma di colpo tutto sprofondò nell’oscurità, e l’ultima immagine che Iris scorse, fu di nuovo quella del limpido cielo del solstizio d’Estate. Si risvegliò nel suo lettino, nella sua casetta, nel
suo boschetto, col suo gattino accanto e rasserenata da un sogno talmente bello, ma delusa che fosse terminato.
Si sedé e si stiracchiò. D’un tratto l’occhio le cadde su una piccola cassa d’argento, che era stata posata ai piedi del letto. Incuriosita aprì lo scrigno e, con uno stupore indescrivibile, lo
scoprì colmo d’oro e gioielli così luccicanti e rari, da far invidia persino a quelli di una regina.
Tra gli smeraldi e gli enormi rubini, Iris trovò una bustina celeste, all’interno della quale vi erano un mucchietto di campanelli colorati e la seguente lettera: “Ad Iris, la fanciullina più
curiosa del bosco, le pietre più belle, affinché possa vivere come una regina ed essere felice, e a Veggente, il gatto sonnacchione, affinché possa indossare un collare di diamanti. Un abbraccio
d’argento, dalle Fate del Solstizio”.
Da quel giorno, la vita di Iris cambiò completamente e non dové più patire né la fame, né la solitudine. Andò a vivere con Veggente in un bellissimo castello, e si circondò dei sui amici più
fedeli, ma mai dimenticò la generosità delle fatine che ancora oggi, nella notte del Solstizio d’Estate, danzano e cantano intorno al falò azzurrino, attendendo che qualche bambino triste, solo e
incuriosito, invochi timidamente il loro magico aiuto.
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In mezzo ad un bosco c’era una villa, molto graziosa, molto ridente. Finestre con tendine, un bel portale, aiuole all’intorno. Ma chi vi
abitava?
Voi direte: una ricca famiglia, un papà elegante, una bella signora, dei figli fortunati o chissà chi mai! Niente affatto.
Vi abitava una famiglia di Fate. Sì, proprio di Fate. C’era Fata Turchina, Fata Aurora, Fata Celeste, Fata Azzurrina e Fata dalle ali d’oro. Vivevano insieme in lieta armonia, vagavano nel bosco
in cerca di bacche, talvolta usavano la loro bacchettina per fare magie, ma solo se occorreva per aiutare qualcuno. Infatti erano molto servizievoli, accorrevano subito se qualcuno le
chiamava.
Un giorno bussarono alla loro porta alcuni nanetti: «Toc toc. Siamo poveri nanetti affamati. Ci sarebbe una ciotola di latte per noi?»
Venne ad aprire Fata dalle ali d’oro e, senza esitare, li fece accomodare.
«Che bella casa avete!» esclamarono in coro.
«Noi abitiamo nel bosco, in una povera capanna. Ci nutriamo con le bacche e con le erbe commestibili. Ma siamo felici e cantiamo sempre. Volete sentire la nostra canzone?»
La fatina porse loro delle ciotole di latte e li invitò a cantare.
“Siam felici, siamo allegri
cuor contento il ciel l’aiuta.
Se siam vecchi non importa,
canta il cuore Trallalà
sempre giovane sarà”
Risero di gusto le fatine ed iniziarono con loro un balletto: trallalà oilì oilà.
Se ne andarono i nanetti ed incontrarono alcuni amici. Erano in sei, tutti con un gran barbone e con un falcetto in mano.
«Da dove venite? Che avete fatto con quel falcetto?» domandarono i primi nanetti.
«Siamo stati nel bosco a taccogliere un po’ di legna per riscaldarci con questo freddo e la pioggia così insistente.»
Continuarono insieme il loro cammino, quando videro nel bosco una fanciulla che correva sotto la pioggia tutta spaventata. La fermarono ed ella li guardava stupita e incoraggiata.
«Perché scappi? Di che hai paura?»
«Poco fa ho visto in lontanza un drago verde e grosso e mi sono spaventata» rispose la bimba.
«Niente più paura! Ci siamo noi e se vuoi venire andiamo nella villa delle Fate, che ti proteggeranno.» Così fecero.
«Toc toc! Fate carissime, siamo ancora noi ed abbiamo bisogno del tuo aiuto per questa bambina.»
Gentilmente le fatine aprirono la porta e li fecero accomodare. Dolcezza, così si chiamava la bimba, si guardò attorno meravigliata e con un OHHH!!! non seppe aggiungere altro.
Le fatine si presentarono dicendo i loro nomi ed invitarono la bimba a visitare la loro villa: c’erano mobili bellissimi, che sembravano avvolti in nuvole d’oro e d’argento, poltrone di velluto
rosso e azzurro.
Le fatine si spostavano volteggiando come se avessero avuto le ali ed emanavano un soave profumo, che sapeva di viole e di gelsomini. Erano gentili ed affettuose e Dolcezza fu accolta molto
amabilmente e rassicurata. La bimba raccontò la sua storia. Viveva in una casa ai margini del bosco. La sua famiglia era serena e lei si sentiva molto amata, ma aveva spirito d’avventura e, a
volte, cercava di evadere vagando per il bosco. Quel giorno la sorprese la pioggia ed avrebbe voluto tornare a casa, quando vide in lontanaza quel drago e si spaventò moltissimo. Per fortuna
incontrò i nanetti, che la salvarono.
Fata Turchina le propose di rimanere con loro fino a quando non fosse cessata la pioggia e poi l’avrebbe accompagnata a casa. Le offrì dei pasticcini che erano squisiti. Mai ne aveva assaggiati
uguali. Anche i nanetti li gustarono: erano tanto golosi!
Cessata la pioggia le fatine si accordarono per andare alla caccia del drago ed uscirono armate della loro bacchetta magica. Il drago era un mago cattivo che aveva preso quell’aspetto per
terrorizzare la gente. Le fatine lo capirono subito e lo cercarono. Ad un tratto lo videro comparire e si tennero un po’ nascoste.
Tutte insieme gli si fecereo incontro e pronunciarono una formula magica:
“Biribigoghi biribigù,
noi siamo qui, mettiti giù.
Rana ranocchio diventa orsù”
Improvvisamente apparve una timida rana, con il suo qua qua cercava di parlare, ma non vi riusciva. Dové rassegnarsi e sottostare
all’incantesimo. Contro la forza delle Fate lui non poteva fare nulla!
Si mise a saltare di qua e di là sempre emettendo il suo qua qua. A questo punto la bimba si sentì rassicurata e ringraziò le buone Fate, ma Fata dalle ali d’oro volle prenderla sulle
sue ali per trasportarla fino a casa. Fu una fortuna perché, fatto un breve volo, videro giungere un lupo minaccioso, che ricordava quello di Cappuccetto Rosso. Si dimenava e sembrava molto
arrabbiato.
«Che hai, povera bestiola?» domandò amorevolmente la Fata.
«Una maga cattiva mi ha ridotto così e vorrei tanto tornare come ero prima, un docile cagnolino» rispose il lupo.
Fata dalle ali d’oro, che aveva capito che poteva trattarsi di un maleficio, volle farsi descrivere l’aspetto della maga. Sentita la descrizione, capì che doveva essere stata Maga Maligna. Non
era facile sciogliere la sua magia, occorreva usare una formula speciale pronunciata da tutte le fatine riunite insieme.
A gran voce chiamò le sorelle e il suo richiamo, portato dal vento, fu udito e, di gran volata, si riunirono tutte. Vista la situazione esclamarono in coro:
“Biribibò, Biribibì,
fuggi Maligna
fuggi di qui.
Biribibì, Biribibò
torna un cagnino, torna un cagnò”
La formula dové essere ripetuta tre volte in coro e finalmente… al posto del lupo cattivo apparve un bellissimo cane nero docile e
festoso.
Tutto tornò sereno. Anche il cielo si rasserenò e cessò la pioggia. Comparve un bellissimo arcobaleno, simbolo di pace e di alleanza.
I nanetti nel frattempo erano tornati alla loro casa. Era un grande fungo, con una porticina, un comignolo fumante, con intorno un tappeto di erbetta ed alcuni funghetti come seggiolini. Non era
molto grande, ma per loro era sufficiente. All’interno alcuni piccoli mobili, qualche sedia, un tavolino ed un camino con un ceppo acceso scoppiettante. Il calore riscaldava l’ambiente e
permetteva di far bollire una pentolina d’acqua in cui il nano cuoco avrebbe fatto cuocere le bacche raccolte.
Una compagnia allegra, felice, contenta di poco. Erano amici con tutti gli abitanti del bosco, che a volte si riunivano intorno alla casetta per un balletto, una scorpacciata di dolci, quasi
sempre offerti dalle fatine loro vicine di casa.
Intanto Maga Maligna meditava la vendetta. Nel suo maniero pensava e ripensava allo smacco subito. Il suo maniero era come un castello fra le nuvole, aveva cinque torri con al centro la più alta
e paurosa. Su ogni torre una guglia si protendeva verso il cielo ed era circondato da un muro molto spesso. Nel cielo svolazzavano uccelli neri e tutto sapeva di mistero. Dentro la torre maggiore
la maga aveva rinchiuso alcuni poveretti, che era riuscita ad attirare con i suoi incantesimi con l’intento di trasformarli in animali dalle più svariate forme e tenerli poi in schiavitù.
Maga Maligna aveva terrore delle Fate, assai più potenti di lei e cercava in ogni modo di disturbarle con tristi messaggi. A volte inviava uccelli stridenti, che volteggiavano attorno alla villa,
altre volte erano insetti disgustosi che tentavano di entrare nella casa e, se ci riuscivano, non c’era più verso di eliminarli. Oppure gettava frutti avvelenati con la speranza venissero
mangiati, ma le Fate avevano sempre un messaggero amico che le avvertiva e le salvava dai pericoli. Poteva essere una farfalla dai colori vivaci, oppure un angioletto venuto dal cielo oppure un
pesce guizzante nel lago vicino. Fatto sta che le fatine potevano sempre mettersi in guardia e prepararsi ad un eventuale attacco.
Un giorno Fata Turchina, stanca degli attacchi subdoli della Maga, decise di affrontarla. Ne parlò con le sue sorelle e stabilirono di recarsi insieme di persona da lei. Non sapevano essere
minacciose, erano troppo buone e gentili così usarono l’arma dell’amore.
Prepararono un bel paniere colmo di ogni leccornia e si diressero verso il maniero. Lungo il cammino gli abitanti del bosco cercarono di dissuaderle, ma inutilmente. Superato il ponte
d’ingresso chiamarono a gran voce la maga. Dapprima questa finse di non avere sentito, ma poi, data l’insistenza del richiamo, aprì uno spiraglio dell’uscio e subito la colpì un soave profumo di
dolci. Era molto golosa Maga Maligna e si lasciò tentare da quel profumino ed aprì l’uscio. Un po’ titubante assunse un aspetto minaccioso domandando che cosa mai volessero da lei.
«Desideriamo solo presentarti un omaggio, qualche dolce preparato da noi da consumare insieme. Oggi è la festa del bosco ed abbiamo pensato a te, così sola e sperduta nel tuo maniero e volevamo
condividere con te la nostra festa.»
Stupita Maligna, diffidente, ma spinta dalla curiosità, accettò di buon grado. Le fatine avevano vinto la loro battaglia e da quel giorno furono lasciate tranquille.
Intanto i nanetti continuavano a fare le loro provviste nel bosco, saltuariamente si recavano alla villa delle Fate per far loro visita e sempre ricevevano qualche dono.
DOLCEZZA CRESCEVA BUONA, BELLA E PRUDENTE.
L’esperienza del drago e degli altri pericoli possibili l’avevano messa in guardia e non si trovò più nei pasticci. Non dimenticò mai le buone Fate ed i nanetti e divenne loro amica, recandosi
ogni tanto a far loro visita per fare festa insieme.
La storia della villa nel bosco termina qui, con tanta gioia per tutti e tanta felicità anche per noi.