Su Salewick l’arcipelago soleggiato
Viveva gente serena e tranquilla
Il sole sempre lì era poggiato
Pur s’era lontano da dove brilla
Piccolo paradiso fra terre ghiacciate
Fortunato terreno di persone ospitali
Che affianco a terre fredde ed innevate
Dai caldi eran baciati cordiali
Sopra di esso v’era una nuvola
Con un castello abitato da un mago
Che avea coscienza minuscola
Di lottar con se stesso mai pago
Il mago innamorato di fanciulla gentile
Facea le sue proposte alla donzella
E dalla sua nuvola con sguardo senile
Osservava tranquillo la sua grande stella
La fanciulla riluttante temporeggiava
Lasciando uno spiraglio di volta in volta
Mentre il mago impaziente aspettava
Con pazienza che parea assai molta
Dopo anni di rimandi e mezzi rifiuti
Il mago adirato decise un rapimento
Al suo servo lui chiese tutti l’aiuti
Per non rimanere solo e sgomento
L’inganno dal servo infedele fu svelato
E la fanciulla al paese aiuto chiese
Col popolo che di volontà armato
Fece fuggir la fanciulla in remoto paese
Il mago vista l’inorridita faccia dell’amata
E la sua fuga dall’isola col sole dei ghiacci
Non si mosse dalla nuvola incantata
Tenuto fermo da magici resistenti lacci
Fu così che si scatenò la sua rabbia
Un fulmine cadde dal cielo sereno
Suggerendogli per il popolo la gabbia
Del temporale regalò loro il veleno
Il sortilegio colpì le genti isolane
Che divennero l’opposto loro caratteriale
Senza il sole e le sue luci per lui villane
Vennero tutti colpiti da un oscuro male
Vendetta dal mago fu ordita ed eseguita
Ma un sacerdote nel tempio che pregava
Non era sulla terra dal male colpita
Scampando a ciò cui il mago bramava
Athalor il suo nome, uscì dal suo rifugio
Chiamato dal fragore di grida e tuoni
Corse fuori senza alcuno ulteriore indugio
Vedendo l’amici agire in differenti toni
L’accaduto tosto dai racconti appreso
Sancì che sarebbe cambiato tutto un giorno
Rompendo l’incantesimo ora esteso
A tutto il territorio a lui steso attorno
Il mago lo vide dal suo alto castello
E lo fulminò in mezzo alla piazza
Terminando la profezia sul più bello
Non dando più speranze alla sua razza
Cadde Salewick così nella tempesta eterna
Per anni non vedendo più l’amato sole
Con la gente nel profondo sempre costerna
Così come i genitori anche la loro prole
Un giorno una donna giunse all’isola
Nel suo fare elegante e splendida
Aveva perso sia memoria sia bussola
Non come l’altri abitanti di certo perfida
L’abiti erano stracci e logori dal viaggio
Ma il portamento era ritto e regale
E chiedendo informazioni con coraggio
Non ne ottenne d’importanza per lei vitale
Ma ella visto un alto e ripido picco
Decise di salire per cercare un’altra terra
Dove il sole coi suoi raggi fosse ricco
E senza del temporale la dura guerra
Dall’alto del castello il mago la scorse
Sentendo la sua forza benefica scorrere
Così subito ad estremi ripari corse
Provando con gl’incantesimi a mordere
Ostacolò con essi il cammino della dama
Che salendo trovava difficoltà estreme
Ma la voce del picco che la chiama
Le dava sempre più coraggio e speme
Stremata giunse la dama al monte in cima
Il mago invocò allora dal cielo un fulmine
Che terminasse quanto iniziato prima
Colpì la dama con la potenza al culmine
L’evento sollevò da terra la donna stremata
Che resistette a lungo pur senza forze
La forza che aveva di già in se ben celata
Era dentro delicate e leggere scorze
Liberando la sua positiva energia
Aprì il cielo per un momento solo
Contrastando del mago l’oscura magia
Rimanendo sospesa dal fulmine in volo
Mentre era dal fulmine sconquassata fuori
Le nubi s’allargarono rapide e veloci
Lasciando il sole inondar tutto di colori
Fermando il mago in urla di dolore feroci
Nasceva da quell’evento una fata maschio
In forma astrale egli ora vagava fra l’umido
E fra il freddo e ancor bagnato muschio
Mentre la donna cadde col volto tumido
La gente liberata dall’oscuro sortilegio
Tornò a sorridere dopo tanti scuri anni
Vedendolo poi come un fine privilegio
Felici e gioiosi uscirono lieti dai capanni
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(dalla raccolta: «Celtic Fairy Tales, 1892»)
Vi era un giovane chiamato «Connla dalla fiera chioma, figlio di Conn delle cento battaglie». Un giorno che stava al fianco di suo padre
sulla sommità di Usna, vide una giovane in strano abbigliamento venire verso di lui. Connla le chiese da dove venisse, e lei rispose che veniva dalle Piane del sempre vivo, dove non c’era né
morte né peccato, e che il suo popolo era chiamato «La Gente della collina».
Il re e gli altri che erano con lui si meravigliarono molto di sentire quella voce, ma non vedevano nessuno, perché nessuno salvo Connla poteva vedere la fanciulla fatata.
Il re allora domandò al figlio con chi stesse parlando; alla domanda rispose la fanciulla e disse che Connla stava parlando con una fanciulla buona e che, innamorata di lui, voleva portarlo con
sé nelle sue terre dove regna Boadag, e dove la giovinezza non svanirà fino all’ultimo giorno del giudizio.
Il re sentendo queste parole, chiamò il suo Druido di nome Coran e gli comandò di far sparire quella fanciulla con qualche sortilegio. La fanciulla, alle parole magiche del Druido, svanì
lasciando a Connla una mela. Per tutto il tempo che passò Connla non mangiò altro che la mela incantata della fanciulla, che ad ogni morso si rigenerava.
Passò così un mese. Connla si trovava nuovamente al fianco di suo padre per andare verso la Piana di Arcomin, quando vide di nuovo la fanciulla che gli parlò, dicendo che questa volta il Druido
non avrebbe potuto salvare il giovane con un sortilegio, perché si trovavano nelle terre protette.
Il re si accorse che il figlio non diceva parola alcuna, ma che fissava il vuoto da dove la melodiosa voce della fanciulla proveniva… non potendo fare nulla, vide suo figlio allontanarsi su una
barca d’argento accanto ad una donna dai capelli d’oro lunghissimi, che doveva essere la fanciulla che lo aveva stregato e rapito.
Di loro non si seppe più nulla, si pensa che siano nel mondo dove né morte né peccato possano distruggere la felicità dei suoi abitanti, che giovani senza invecchiare giungeranno fino all’ultimo
giorno del giudizio.
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Racconto di una Fata…Quando giunsi nel Granducato di
Lot, nuove consapevolezze s’agitavano ormai nel mio animo di Fata: avevo a lungo Viaggiato, a lungo studiato la mia più intima natura, e mi sentivo pronta ad iniziare una nuova vita, racchiudendo
in uno scrigno il mio passato, l’immagine di mia Madre Iza, la voce di mio padre, come prezioso segreto da cui trar forza, nei momenti di solitudine.
Ma di soltudine ne vissi ben poca; fra quelle strade solcate da esseri di razze ed indoli tanti diverse da loro, trovai anche Sorelle Fate tanto simili a me, da spingermi ben presto a divenir
parte di una vera e propria famiglia. Clan, lo si chiama fra quelle mura. Il mio, era il Clan delle Fate di Avalon.
Tornai ad avere un luogo chiamato Casa, tornai a sentirmi parte d’una Famiglia, ebbi la possibilità di confrontarmi con realtà che non avevo mai nemmeno considerato. M’insegnarono a muovermi ed a
comprendere la vita del Granducato, mi aiutarono ad amplificare i miei istinti d’essere composto di pura energia, mi guidarono con mano amorevole affinchè potessi scoprire la mia Via. Ma io non
ebbi molti dubbi: i Ghiacci della mia Terra Natale, l’intima solitudine in cui spesso mi rinchiudevo, il mio fare solo in apparenza distaccato, freddo ed austero, ed il fuoco che sentivo ardere
in me… la scelta possibile fu una soltanto: Diale, Fata dell’Inverno.
Trascorsi così quello che ora, a distanza di anni, posso permettermi di definire il periodo più sereno della mia vita: Myluna, Kaisy, Danu e Tarya le mie Guide, le mie complici, le mie Sorelle.
Le giovani Neos giunte ad Avalon dopo di me di cui prendermi cura, in qualità di Bibliotecaria della Stirpe. La Basilea Preciosa e le sue abitudini. Pinkymoon, mia Ego, l’altra faccia della
nostra Luna; e Kassiope Vaily Caprice e Sonountuosogno, Sixie Alexxias e Katriin e… potrei a lungo proseguire, tante furono le Fate che mi segnarono, e che ancora oggi fanno parte del mio essere,
o del mio cuore.
Poi, incontrai FernandoCouto. Fu il primo a leggere oltre il mio velo di Ghiaccio, fu il primo tanto coraggioso da affrontare il mio cuore, ad ascoltare ciò che le parole non sanno dire. A vedere
un diamante, là dove il resto del mondo vedeva solo un fiocco di Neve. A scorgere il mio Futuro, ancor prima che io potessi anche solo immaginarlo.
Lo amai e ci sposammo in Themis, lo amo ancora, nonostante il Fato abbia reso entrambi tanto diversi, nella forma come nella sostanza. Lo amo Follemente. Lo amo Razionalmente. Lui prende la mia
mano, ed io so chi Sono.
Qualcosa, tuttavia, nuovamente s’agitava nel mio animo. Una voce carica di Potere continuava a sfiorarmi la Mente mentre, man mano che il Ghiaccio si depositava in me, il mio carattere divenne
sempre più chiuso, la mia altezzosità sempre più rimarcata, invadente, ed il lato di Tenebre del mio essere prese a farsi strada, allargandosi come macchia d’inchiostro su di una veste.
Qualcosa d’innato reclamava il suo diritto a manifestarsi finchè, una notte di Tempesta, Padre Tuono non mi prese con sè, portandomi a Salewick.
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Una delle storie della tradizione elfica italiana tramandata a voce da millenni.
Con i sussurri è giunta a noi, ha viaggiato nel folto delle foreste, si è arrampicata attrarverso i secoli. Ed allora leggiamo insieme la storia della ninfa Biancofiore…C’era una volta in mezzo ai campi, lungo la strada maestra, una povera casa che somigliava a quelle disegnate dai bimbi, con una porticina, due finestre
e un comignolo sul tetto, cinta da una siepe di spino brulla d’inverno, arida e polverosa nella buona stagione.
Un comignolo fumava sempre, perché nonna Saveria alimentava il fuoco con rami verdi, spesso umidi, raccolti qua e là per i greti dei fossati, o per le callaie. Ma fuscelli, giunchi, foglie
servivano per cuocere un po’ di cibo a Serenella, la nipotina, e per riscaldare durante l’inverno.
Nonna Saveria, piccola, bianca, secca, con le mani quasi trasparenti, filava sempre accanto al focherello e vendeva le matasse ad un mercante che passava per il villaggio; Serenella, bionda più
d’una spiga, chiara negli occhi come la primavera, porgeva i bioccoli di lana, riponeva le matassine filate, e se ne stava lunghe ore pensosa, senza giochi e senza letizia, come se per la
felicità le mancasse qualche cosa.
Un giorno il comignolo non innalzò il suo pennacchio di fumo, perché nonna Saveria rimase a letto con la febbre e Serenella non trovò più fuscelli nel cesto accanto al focolare, più farina
nella madia, più lana da filare nel cassettone. Era inverno e fuori la terra era gemmata di brina, le piante stellate di ghiaccioli, i fossi lucenti di specchi di ghiaccio; e la nonna tossiva
penosamente, senza chiedere nulla per sé, trepida solo della nipotina, che doveva aver freddo e fame.
Serenella si guardò intorno sgomenta, e udì una vocina sottile sottile che la chiamava; la voce veniva dal focolare e la bimba non tardò molto a scorgere la testina nera di un grillo, il quale
veniva fuori da un buco con archetto e violino, per mettersi in un angolo e intonare:
«Serenella, Serenella!
Per le rive, per la neve,
c’è una bianca reginella
ben ravvolta in nube lieve
esci dunque, Serenella!»
La bimba rimase perplessa, ma, poiché il grillo del focolare seguitava a dirle quelle parole misteriose, aspettò che la nonna si assopisse,
quindi si ravvolse in un vecchio scialle ed uscì pian piano, pensando: “Troverò qualche giunco e farò un focherello a nonnina.”
Camminò pel sentiero, trascinandosi dietro gli zoccoli, stringendosi sul petto i lembi dello scialle, cercando con gli occhi qua e là, ma le vecchie foglie erano fradice, qualche fuscello
abbandonato si spezzava tra le dita, consumato dal gelo.
Mentre si curvava al ceppo d’una quercia con ostinata e fiduciosa ricerca, si sentì tirare dolcemente le trecce bionde, che uscivano al di sotto dello scialle.
«Che fai, bambina?»
Serenella sollevò i suoi chiari occhi primaverili e vide una giovane donna, bianca come la neve, vestita di veli, quasi trasparente sullo sfondo della campagna, come fosse composta di vapori
tenui. Lo splendore argentato della visione era rotto dall’oro dei capelli, un oro pallido, diffuso, come raggio di sole attraverso le nubi invernali.
«Pochi fuscelli gelati» disse la strana apparizione «durerebbero poco e non toglierebbero nulla alla tua fame e a quella della tua nonna. Ascoltami, ti darò molta lana, tu la filerai e porterai
il lavoro compiuto a questa quercia; batterai tre colpi sul tronco, chiamando Biancofiore, io verrò fuori, prenderò le matassine e ti darò nuova lana; così tutte le settimane. In compenso
troverai nella tua casa fuoco e cibo.»
Serenella disse: «Sì! Sì!» con un trillo di gioia, senza pensare che non aveva mai provato a reggere la conocchia e a prillare il fuso. Biancofiore le caricò le braccia di filoni di lana e sparì
in uno scintillio di nebbia.
La bambina trotterellò verso casa con quel peso inusitato, un po’ traballando sugli zoccoli, con le manine intirizzite, ma con il cuore traboccante di una gioia strana. Trovò sul focolare un bel
fuoco crepitante su da un ceppo, tutto braci rosse e fiammole azzurre; appesa ad una catena c’era una pentola da cui si sprigionava col vapore uno squisito odor di brodo; nella madia molto pane,
sul cassettone un decotto per la nonna.
Serenella servì la vecchietta e prese il suo posto accanto al focolare con la conocchia erta da un lato e il fuso pendente dall’altro. Com’era difficile reggere l’una e muovere l’altro! I
bioccoli di lana sfuggivano, si spargevano a terra, non obbedivano alle dita della bimba, che cercava di torcerli; il fuso, poi, si ostinava a rimaner fermo e, se roteava, faceva sbalzi
improvvisi, rompendo il filo attaccato con tanta fatica.
Serenella non si sgomentava, rizzava la conocchia, raccoglieva i bioccoli dispersi, torceva, prillava, riprovava, con una perseveranza che le veniva dal cuore. Finalmente, le ciocche di lana si
assottigliarono in filo, e il fuso girò con ritmo abbastanza regolare.
Alla fine della settimana tutta la lana era filata, un po’ grossa, con qualche nodo, a matasse non ben ravviate, ma Serenella disse a Biancofiore, presso la vecchia quercia: «È la prima lana che
filo, quest’altra volta farò meglio.»
Biancofiore prese alcuni fili, li foggiò a forma di stella e disse: «Appendile alla siepe della tua casa.» Le diede nuova lana e sparì con un barbaglio di nuvola.
Serenella camminò per i campi, tra le falde di neve che cominciavano a turbinare nell’aria, e quando fu presso la brulla siepe che circondava la sua dimora si fermò per appendere ad uno sterpo le
stelline di lana di Biancofiore, ma qualcosa frullò sul suo capo, un battito d’ala ed un uccello piccolo e gramo le si posò sulla spalla.
«Dammi quelle stelline!»
La bimba, ancora un poco spaurita dal volo improvviso, rispose: «Non posso, devo obbedire a Biancofiore.»
L’uccello cinguettò dolcissimamente: «Sono Trillodoro, l’usignolo di maggio. Al cader dell’autunno avevo male ad un’aluccia e non potei volare in paesi più caldi. Abito in un buio gelido e le mie
piume non bastano a ripararmi dai soffi del vento… dammi le tue stelline, voglio farmi un nido per non morir di freddo.»
Serenella si commosse e diede le stelle di lana all’usignolo che frullò via tra i fiocchi di neve. Così per tutta l’invernata Biancofiore, mentre consegna la lana da filare, formava stellin di
filo: «Appendile alla siepe de la tua casa.» Ma Serenella donava le minuscole stelle a Trillodoro, ci veniva sempre ad incontrarla al ritorno.
Un giorno, non c’era neve e l’aria inazzurrata sapeva di viole, Biancofiore disse alla bimba: «Raccogli le mie stelline di lana e portale al ceppo della quercia.»
Serenella s’allontanò sgomenta, affondando gli zoccoli nell’erba umida, che cresceva a ciuffi tra gli specchi d’acqua; i salici, i giacinti di penduli fiori d’oro, ondeggiarono sul suo capo come
per confortarla, come per suggerirle un’idea, e questa venne perché, appena a casa, la bambina chiamò: «Grillo del focolare!»
Il grillo canterino venne fuori e chiese: «Cosa desideri?»
«Biancofiore vuole le sue stelline di lana.»
Il piccolo musicista intonò sul violino: «Stelle di lana, stelle di luna darò nel maggio, a notte bruna.»
Serenella tornò sui suoi passi, bussò al vecchio albero e Biancofiore, vestita ora di veli glauchi e viola come l’aria di primavera, ripete timida, pavida le parole del grillo.
«Va bene, aspetterò maggio.»
La bimba lavorò ancora, ma si rattristava delle margheritine che costellavano i prati, i mandorli e dei meli che sfiorivano, dei melograni che rossegiavano di fiori, del sole che si faceva più
vivo, delle rondini che garrivano, garrivano la gioia nei cieli, delle prime rose che si aprivano; insomma, di tutte quelle cose meravigliose che annunziano maggio.
La sera di Calendimaggio, allorché la luna inondò di chiarità i campi, Serenella udì cantare nella siepe, era un canto di gioia ed ella ne capì improvvisamente le parole:
«L’usignolo Trillodoro
t’ha portato il tuo tesoro
di stelline piccoline, tutte bianche,
tutte in fiore,
per la ninfa Biancofiore.»
La bambina uscì e vide che la siepe di spino era tutta fiorita di bianco, meravigliosamente, la fragranza inondava l’aria pareva una sola
cosa con il canto dell’usignolo.
«Grazie, Trillodoro! Porterò subito un fascio di biancospino a Biancofiore!»
La ninfa, come avesse udito le sue parole, le apparve vestita questa volta di raggi di luna, le fece una carezza lieve sui capelli e sparì nella chiarità diffusa.
A quella carezza Serenella capì che si può essere felici in una casa con una porticina, due finestre, un comignolo sul tetto simile a quelle disegnate dai bambini, con un grillo sul focolare, una
siepe di biancospino, un usignolo che canta. Capì che la felicità è fatta di cose piccine nate dal cuore.
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C’era una volta un bosco incantato: nel bosco vivevano le Fate dei fiori, che trascorrevano le loro giornate svolazzando di fiore in fiore
per portare i colori più belli su tutti i petali delle corolle.
Il bosco abitato dalle fatine era davvero il più bel bosco del Regno, pieno di luce e di colori meravigliosi, e le stesse fatine erano le artefici e le custodi di tanta bellezza.
Oltrepassato il fiume azzurro, aveva inizio la selva delle streghe: la selva era cupa e tetra, e non conosceva altri colori all’infuori del nero, del grigio e del marrone.
Le streghe trascorrevano buona parte del giorno a cercare senza sosta gli ingredienti per le loro pozioni magiche, e la notte spiccavano il volo in sella alle loro scope.
Quasi tutte le streghe avevano una scopa magica: tutte eccetto una, la piccola strega Amabel. Quest’ultima era ancora troppo giovane per poter volare, e così trascorreva le sue giornate a
studiare gli incantesimi che le avrebbero permesso un giorno di diventare una brava strega.
Una mattina, dopo aver camminato per oltre un’ora nella selva alla ricerca di un’erba magica, Amabel scorse da lontano il fiume azzurro: la piccola streghetta rimase abbagliata da tanta bellezza
e decise di oltrepassare il ponte di legno per andare a conoscere il mondo delle Fate.
Una volta giunta nel bosco incantato, Amabel rimase colpita dalla moltitudine di fiori colorati, così belli e luminosi da riempire il cuore di gioia.
Camminando ancora scorse da lontano alcune fatine che giocavano fra loro: le fatine avevano la pelle chiara come la luna, gli occhi celesti come il cielo e i capelli biondi come il sole. Tutte
insieme volavano in circolo scherzando fra loro. Amabel le guardava e rimase incantata dalle loro ali.
“Che bello!” diceva Amabel fra sé. “A loro non occorre la scopa per volare, basta solo un leggero battito d’ali ed ecco che possono spiccare il volo. Che meraviglia! Anch’io vorrei poter volare
così!”
Tutto a un tratto la fatina Faline si accorse della presenza di Amabel e disse alle altre: «Amiche, c’è una strega laggiù! Andiamo a scoprire per quale motivo è arrivata fin qui nel nostro bosco
incantato.»
Amabel indossava la sua veste nera, aveva i capelli color carbone e gli occhi di un nocciola scuro. Le Fate le chiesero: «Perché sei qui? Vuoi forse rubare i colori del nostro bosco?»
«Oh, no, non intendo fare assolutamente una cosa del genere» rispose Amabel. «Io vorrei solo imparare a volare come voi, io vorrei poter avere le ali.»
«Le ali?» dissero in coro le Fate. «Tu vorresti avere le ali?» E tutte insieme scoppiarono in una fragorosa risata.
«È impossibile per te avere le ali» le disse duramente Faline. «Tu non sei una Fata, tu sei una strega.»
Amabel si rattristò molto. Girò le spalle e fece per incamminarsi sulla via del ritorno, quando improvvisamente una nuvola rosa comparve nel bel mezzo del prato: quando la nuvola si dissolse,
Amabel si ritrovò davanti alla Regina delle Fate.
«Buongiorno, Amabel, io sono Aurora, la Regina delle Fate. Ho ascoltato le tue parole e ho deciso di darti una possibilità per riuscire a realizzare il tuo desiderio di avere le ali.»
«Ma lei è una strega» si oppose Faline. «Non può avere le ali!»
«Silenzio» la tacitò Aurora. «Ho deciso che se Amabel riuscirà a superare la prova a cui la sottoporrò, riceverà in premio un paio d’ali. Il suo desiderio è forte e sincero, e merita di essere
esaudito.»
«Guadagnarmi le ali?» sussurrò Amabel, trepidante. «Oh, Aurora, ti ringrazio infinitamente: dimmi pure a quale prova hai deciso di sottopormi.»
Con un rapido gesto della mano, Aurora fece apparire davanti ad Amabel cento fiori di cristallo.
«Nell’arco di una giornata» disse la Regina delle Fate «dovrai fare un incantesimo che doni i colori a questi fiori; dopo aver compiuto ciò, dovrai essere capace di far scorrere vera linfa nei
loro steli, tramutando il freddo cristallo in soffici petali. A partire da questo momento hai un giorno di tempo per portare a termine l’incantesimo e superare la prova: io tornerò allo scoccare
della ventiquattresima ora per vedere cosa sei stata in grado di fare. Quanto a voi altre» proseguì rivolgendosi alle fatine «dovrete lasciarla da sola.»
Aurora batté lievemente le mani e una nuvola rosa avvolse lei e le sue compagne: quando la nube si dissolse, tutte le Fate erano scomparse.
Amabel si rimboccò le maniche e si scostò i capelli dal viso, fece apparire davanti a sé un calderone di acqua bollente, estrasse dalla sua bisaccia una manciata di ingredienti magici ed iniziò
alacremente a preparare la pozione. La piccola strega era sicura di poter riuscire nell’intento e portare così a termine la prova.
Purtroppo però, la dolce Amabel non immaginava che qualcuno stesse tramando contro di lei: questo qualcuno era la Fata Faline, gelosa del fatto che una piccola strega come Amabel potesse ricevere
le ali Fatate dalle mani di Aurora.
Quando Amabel si distese sul prato a riposare un po’, Faline approfittò del sonno della streghetta per lanciare un incantesimo contro la pozione magica di Amabel:
«Sette colori dell’arcobaleno,
scomparite in un baleno,
nero, grigio, viola e marrone,
impossessatevi di questa pozione!»
Pronunciato l’incantesimo, Faline si dissolse in una nuvola lilla: qualcuno da lontano osservò attentamente quella nuvola dissolversi nel
prato dei fiori di cristallo…
Amabel, al suo risveglio, corse a spegnere il fuoco sotto al calderone e bevve col mestolo un sorso di pozione magica.
«Zot!» declamò allora pronunciando la formula magica. «Zot!» ripeté.
D’improvviso una nuvola scura abbracciò il prato dei fiori di cristallo: Amabel non comprendeva cosa stesse accadendo, poiché si aspettava che i colori della nuvola fossero quelli luminosi
dell’arcobaleno. Quando la nube si dissolse, i fiori erano tutti appassiti.
Amabel spalancò gli occhi, non riusciva a spiegarsi come potesse essere accaduta una cosa simile.
“Questo prato doveva avere i colori dell’arcobaleno” disse a se stessa la piccola strega. “Cosa può essere mai andato storto nella mia pozione magica?”
All’improvviso le apparve davanti la fatina Faline, che sbatteva le ali e rimaneva a mezz’aria, in modo da poter guardare Amabel dall’alto in basso.
«Guarda che cosa hai combinato! Questi sono i colori più orribili che ci siano sulla faccia della terra. Tu credi davvero che Aurora ti darà in premio le ali dopo che avrà visto tutto questo?»
Prima che la piccola strega riuscisse a rispondere, apparve Aurora.
La Regina delle Fate guardò i fiori appassiti e disse ad Amabel: «Mi spiace molto, piccola strega, ma purtroppo non hai superato la prova e dovrai abbandonare il nostro bosco incantato senza
ricevere il tuo paio di ali. Addio.»
La piccola Amabel si sentì salire le lacrime agli occhi, e fece uno sforzo per trattenere il pianto, quindi volse le spalle e s’incamminò per uscire dal bosco.
Trascorsi pochi passi, Faline le si parò nuovamente davanti. «Tieniti pure questa» le ingiunse gettandole addosso un’ala di Fata. «Era mia e si è spezzata, ma Aurora me ne ha già data un’altra
nuova di zecca. Se anche tu riuscissi ad aggiustarla, credi forse di poter volare con un’ala soltanto?» Pronunciate queste ultime parole, Faline scoppiò in una fragorosa risata e volò via.
Amabel fece in tempo a gridarle dietro: «Spero di non assomigliarti mai, Fata malvagia!» Detto ciò, la piccola strega raccolse l’ala quasi trasparente e la osservò in controluce. “Io so come
ripararla” disse Amabel fra sé, quindi pronunciò una formula magica e l’ala spezzata tornò all’istante come nuova. La piccola strega se la mise sotto il braccio e riprese il suo cammino.
Poco prima di arrivare al fiume azzurro, Amabel incontrò un nuovo personaggio sulla sua strada. Stavolta si trattava di una fatina molto piccina, con i capelli verde acqua e gli occhi color
dell’argento. La piccola fatina era rannicchiata su se stessa e singhiozzava sommessamente.
Amabel le si avvicinò e le chiese: «Come ti chiami? Perché piangi? Posso forse fare qualcosa per aiutarti?»
La fatina smise allora di singhiozzare e alzò lo sguardo verso Amabel. «Mi chiamo Melena» rispose. «Mi si è spezzata un’ala e non posso più volare.»
«Non puoi chiedere ad Aurora di donartene una nuova?»
«Oh, no, io non sono una Fata del bosco incantato, io vengo dalle lontane vallate del nord. Aurora non è la mia regina e quindi non può aiutarmi in alcun modo.»
Amabel le porse senza esitazione l’ala di Fata che portava con sé. «Tieni, prendi pure questa, è un’ala di Fata che si era spezzata, ma io ora l’ho riparata grazie ad una formula magica. Forse
potrai riprendere subito a volare. Su, prova a vedere se questa nuova ala può servire a sostituire la tua.»
La fatina Melena prese l’ala con sé e in un batter d’occhio spiccò il volo.
«Sei felice adesso?» le domandò Amabel.
«Oh, sì, Amabel, e voglio che lo sia anche tu.»
«Come fai a sapere che mi chiamo Amabel? Non ti avevo ancora detto il mio nom…» La piccola strega non fece in tempo a terminare la frase che una grande nuvola avvolse Melena, e quando la nuvola
si dissolse, Amabel vide davanti a sé Aurora, circondata dalle Fate del bosco.
«Aurora!» esclamò la piccola strega. «Ma dove è finita Melena?»
«Melena ero io, queste invece sono le tue nuove ali.» E così dicendo le porse un bellissimo paio di ali lucenti. «Ho visto Faline gettare elementi malefici nella tua pozione magica, so che senza
il suo intervento scorretto saresti riuscita a superare la prova. Tu sei una brava strega, e soprattutto sei buona e generosa, proprio per questo meriti il tuo paio d’ali.»
Quanto a Faline invece, che è stata ingiusta e cattiva, questo è quello che si merita.» Aurora schioccò le dita e le ali di Faline scomparvero, lasciando che la Fata cadesse per terra urtando il
suolo con il suo piccolo fondoschiena.
«Ma, Aurora…» si lamentò Faline, dolente. «Togli le ali a me che sono una Fata e le doni a Amabel che è solo una strega?»
«Tolgo le ali a te che sei stata subdola e sleale, e le dono ad Amabel che ha un cuore buono e bello, bello come i colori del nostro amato bosco.»
Fu così che da quel giorno Amabel divenne una strega con le ali, e i suoi lunghi capelli neri ondeggiavano dolcemente nell’aria quando spiccava il volo.
Amabel crebbe ed imparò a preparare mille altre pozioni magiche, si sposò con un mago del cielo e viaggiò per tutto il Regno, insegnando a tutti gli esseri Fatati a volare ma non solo. Ha
insegnato e tuttora insegna a volare a tutte le persone buone che ha incontra sul suo cammino…
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Alixa esisteva da sempre, non aveva memoria d’un tempo in cui la Luce di Themis non avesse brillato sul Piano Astrale, solo che a lungo non
c’era stata una coscienza del Sé, del suo essere Alixa, ma il mero benessere soffuso d’una sfera d’energia. Quando la consapevolezza di una identità personale si fece strada nella coscienza
collettiva dell’essere Fata, Alixa sentì il bisogno di darsi un nome che la identificasse e la distinguesse dalle sorelle Fate.
E, col nome, venne anche una sorta di curiosità di conoscere altri Piani, che la portò a vagare tra i Piani, da quello Astrale, in cui era sempre stata, a quello Eterico, che scoprì essere
divertente perché lì poteva assumere delle forme, gradevoli ed alate, e, per poco tempo, addirittura sembrare grande come un’umana, non era più solo energia. Nel suo vagolare giunse per caso
all’Isola delle Fate Janas, dove incontrò tante altre Fate come lei e, col tempo, prese la consuetudine di tornarvi sempre più spesso, perché trovava piacevole giocare con le sorelle e riunirsi
con loro nella Danza del Calice, in cui entravano in risonanza col Cristallo che era sull’Isola e che donava loro energia sul Piano Eterico.
Quando l’Isola fu travolta da un cataclisma girovagò a lungo, sentendosi in esilio lontano dall’Isola e dalle sorelle Fate, fino a che, nel suo peregrinare, giunse nel Granducato di Extremelot e
poi nella Città di Lot, dove ritrovò molte delle Fate dell’Isola e decise di rimanere con loro, anche perché a Lot cominciò ad incontrare altre forme di vita, non collettiva, con cui poteva
intrattenersi, esprimendo la sua natura di Fata, allegra e svagata, forse solo meno stizzosa di tante altre, in quanto aveva il Sogno della Tolleranza, ch’era giovane, era nato nell’Isola e
l’aveva seguiva costantemente perché lei lo sognava.
Il Sogno della Tolleranza la spinse ad entrare nella Gilda dei Bardi, perché, discreto e presente, voleva rimare con le genti e cantare gli eventi, levitando leggero con lei, perché le
apparteneva, era il Sogno con cui Alixa intratteneva i lottiani tutti, d’indole buona o cattiva, d’araldica viandante o signore. Il Sogno della Tolleranza sfiorava l’arpa Avalon, strumento
pregiato che Alixa s’era fatta costruire da un Mastro Musico ch’era un’artista, ne traeva note armoniose all’animo e sorrideva, sereno che, mostrato da Alixa, sarebbe stato scelto da molti altri,
anche da bardi, antichi e nuovi, perché i cuori di bardo dovrebbero sempre accogliere il Sogno della Tolleranza.
Alixa divenne anche Redattore de “Il Bardo” e scrisse alcune interviste, tuttavia i cuori dei lottiani grondavano sangue e rancore, invocavano venti di guerra, davano risposte feroci e la notte
sognavano il Sogno della Vendetta, e volevano che fosse quello e nessun altro il Sogno che li accompagnasse durante il giorno.
La Fata Janas Alixa volava da un luogo all’altro di Lot e i suoi occhi si riempivano d’immagini crudeli, ascoltava le genti minacciarsi e la mente le si affollava di parole arroganti, dissonanti
invece che musicali al cuore, di giorno lei cantava le gesta, ma la notte il Sogno della Tolleranza si affievoliva, perdeva energia, perché da troppo pochi veniva sognato, da troppo pochi veniva
accolto e molti cominciarono anche a rifiutare le sue interviste, per cui si dimise dalla Gilda dei Bardi e poco dopo anche dalla Redazione de “Il Bardo”.
Il Sogno della Tolleranza, come un fiore delle lande, troppo fragile in un terreno ostile, finì con l’appassire, non sa dire, Alixa, esattamente dove e come, perché fu solo quando cercò il Sogno
del Gioco che s’accorse che Il Sogno della Tolleranza era avvizzito e, al suo posto, era cresciuto il Sogno della Polemica, sterile e greve come una gramigna. Alixa allora cercò di aiutare i
lottiani incorsi in sorti rie e divenne Azzeccagarbugli e li difese dinanzi alla Corte di Giustizia e conobbe il Presidente della Corte di Giusizia di Lot, Seya ed il Giudice ELIUSA ed il Primo
Inquisitore Lebow, di loro tutti ha stima e della cui amicizia si onora ancora.
Alixa perse, però, un po’ della spensierata incoscienza delle Fate, il non riuscire a trovare il Sogno del Gioco le solcò lo sguardo d’un aria intristita, molti lottiani la trovarono più bella
per questo, ma Alixa si sentì sola, che per una Fata è sensazione dissonante al cuore, anche se le fu di compagnia e conforto l’Amica Elfa, Dama KeridAnita, che incontrava nei luoghi del
Granducato e l’accompagnava ovunque la sua aquila Free, comprata ed addestrata a difenderla alla Masseria.
Una notte magica e divertente, la notte di Calendimaggio, la notte che festeggiano le Fate Janas nei giardini di Castel Fairy, dove Alixa vive a Lot, incontrò il Sogno del Piacere ed i sorrisi
tornarono sulle sue labbra, una notte fatata ed appassionata in cui ritrovò il Sogno del Gioco e, abbracciata a questo sogno e mano nella mano col suo signore Tymba, scoprì il Sogno
dell’Amore.
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C’era una volta due sorelle rimaste orfane sin dall’infanzia: la maggiore bella quanto il Sole, diritta come un fuso, con una gran chioma che
pareva d’oro; la minore così così, né bella né brutta, piccina, magrolina e zoppina da un piede. Per la sorella, non aveva nome, era semplicemente la zoppina.
La vecchia nonna, da cui erano state raccolte in casa, non avrebbe voluto che costei la chiamasse sempre con quel nomignolo: «Che colpa n’ha, la poverina? È mancanza di carità rammentarle il suo
difetto.»
«O se è vero ch’ella è zoppina! Non me lo invento io.» E la cattiva rideva, per giunta.
Si fosse pure contentata di maltrattarla con quel nomignolo soltanto! Non sarebbe stato niente, perché la zoppina non se ne faceva, come se non dicesse a lei. Il peggio era che la maltrattava
anche coi fatti, quasi non fosse stata dello stesso suo sangue, ma una serva.
«Zoppina, fa’ questo… Zoppina, fa’ quello!… Zoppina, vien qua! Zoppina, va’ là.»
Non le dava requie un momento; ed ella intanto se ne stava in panciolle per non sciuparsi le belle manine, o pure allo specchio o alla finestra, quantunque la nonna spesso la sgridasse: «Chi
aspetti lì, a quella finestra?»
«Aspetto il Reuccio.» Né lo diceva per chiasso. Si era messa in testa che il Reuccio, passando per la strada, dovesse restare incantato dalle bellezze di lei e farla Reginotta.
E la mattina, quando il Reuccio andava a caccia seguito da tanti cavalieri, se lo divorava con gli occhi, e si sporgeva fuori dalla finestra, facendosi quasi sventolare la sua gran chioma d’oro
per attirarne gli sguardi. II Reuccio non le badava, non si voltava; passava trottando, con gran dispetto di lei. Ella però non si dava per vinta.
«Guarderà domani. Se mi guarda, è fatta: sarò Reginotta.»
E sfogava la sua rabbia contro la sorella. Arrivava fino a picchiarla, se le pareva di non esser servita a puntino, specialmente nei giorni che il Reuccio passava di corsa, proprio quando ella
credeva di essersi fatta più bella, lavata, pettinata, e con la biancheria di bucato.
Un giorno, che s’era alzata dal letto di malumore più del solito, aveva gridato sgarbatamente: «Zoppina, va’ a comprarmi il latt; e sia fresco, zoppina!»
La povera zoppina era scesa in istrada, e, ciampicando, s’avviava verso la bottega del lattaio, quando, dalla svolta della cantonata, ecco sbucare il Reuccio ed il séguito a cavallo, di carriera.
Ebbe tanta paura, che inciampò, e cadde. Al grido di lei, il Reuccio poté frenare a tempo il suo cavallo e salvarle la vita. Scese subito di sella, l’aiutò a rizzarsi in piedi, le domandò
premurosamente se s’era fatta male, e vedendo che zoppicava, credette che fosse per effetto della caduta. Allora le porse il braccio, l’accompagnò dal lattaio e poi la ricondusse fino alla porta
di casa.
La sorella maggiore già s’affrettava a scender le scale per non lasciarsi sfuggire quell’occasione di farsi vedere dal Reuccio; già borbottava le belle parole di ringraziamento da dirgli, e già
pensava al graziosissimo inchino da fargli; ma quand’ella arrivò giù, il Reuccio era rimontato a cavallo, e spariva in fondo alla strada.
Figuriamoci che stizza! Quel giorno parve ch’ella avesse un diavolo per capello; niente la contentò, niente le andò a verso: «Zoppina! Zoppinaccia! Brutta zoppaccia!»
La poverina si mise a piangere.
«Fa’ la volontà di Dio» le disse la nonna. «Dio ti aiuterà.»
La nonna, ch’era molto vecchia, si ridusse in fin di vita. Prima di morire, si rivolse alla sorella maggiore: «Ti raccomando quella poverina. Ora che non ci sarò più io, non esser con lei sempre
cattiva come pel passato. È buona, affettuosa; non si merita punto i maltrattamenti che tu le fai. E non la chiamare più zoppina!»
«O se è vero ch’ella è zoppina» fu la risposta di lei. «Non me lo invento io.»
«Senti: verrà un giorno che vorresti esser tu la zoppina!» E la vecchia morì.
Rimaste sole, la sorella maggiore si tenne per padrona addirittura. Se la nonna le avesse raccomandato di far peggio di prima, quella cattiva ragazza non avrebbe potuto far peggio. La povera
zoppina piangeva giorno e notte.
Colei sfoggiava abiti di seta, collane, e anelli, e orecchini di brillanti: la zoppina, doveva indossare un vestituccio di stoffa scadente, scuro, sbricio sbricio, quasi da monachina. E tutti i
giorni: «Zoppina! Zoppinaccia! Zoppina del diavolo!»
La poverina faceva la volontà, di Dio, come le aveva detto la nonna; ma la notte, nella sua misera cameretta, si metteva a piangere, zitta zitta; e pregava: «Nonnina mia, nonnina mia, pensateci
voi per me!»
Una mattina, nel far le scale per andare a comprare il latte, scòrse su uno scalino qualcosa che non distingueva bene che fosse. Si chinò, lo raccolse, e vide ch’era un fiorellino tutto
scalpicciato e sgualcito; un fiorellino rosso, che mandava un odore di paradiso. Lo ripulì, gli riaggiustò le foglioline e se lo mise in petto. Tornata a casa, lo ripose in un vasetto con
l’acqua, su un tavolino della sua camera, e di tanto in tanto andava ad osservarlo. In quel vasetto con l’acqua, il fiorellino parve risuscitato, e riempiva la camera del suo profumo.
Quando la sorella la sgridava: «Zoppina! Zoppinaccia… Zoppaccia del diavolo!», ella, senza sapere perché, andava a guardare il fiorellino, e si sentiva consolata.
Verso mezzanotte, entrata in letto, la poverina s’era messa a piangere: «Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me!»
E sentì una voce flebile flebile, dolce dolce, che diceva: «Ci penserò io! Ci penserò io!»
Ebbe paura e accese il lume. Nella camera non c’era nessuno: né quella era la voce della sua nonna.
«Mi sarà parso!» Spense il lume e si addormentò.
Così più notti di seguito; ella però oramai più non provava paura a quella voce flebile flebile, dolce dolce, che pareva venisse da lontano. Anzi, una notte, fattosi animo, osò domandare: «In
nome del Signore, chi sei?… Sei tu la mia nonnina?»
Passato un mese, il fiore era sempre così vegeto e così fresco nel vasetto, dov’ella rimutava l’acqua due volte al giorno, da potersi credere spiccato allora allora dalla pianta.
La zoppina n’era meravigliata, e cominciò a sospettare che esso fosse incantato, e che fosse sua quella voce da lei udita ogni notte.
Perciò la notte appresso, appena sentì dire: «Ci penserò io», subito gli domandò: «In nome del Signore, tu chi sei?» Ma non ebbe risposta.
La mattina si sveglia, cerca tastoni la veste, e al tatto si accorge che la stoffa era un’altra. Apre gli scuretti della finestra, e che vede? Su la seggiola a piè del letto, vede steso un
vestito nuovo, così bello, così ricco, ch’ella rimase un pezzetto a guardarlo a bocca aperta, senza osare neppur di toccarlo.
Indossò un vestito smesso, con le maniche sdrucite ai gomiti, e quello lo nascose nell’armadio per via della sorella.
Il giorno dipoi si sveglia, cerca tastoni la veste, e al tatto si accorge che la stoffa era un’altra. Apre gli scuretti della finestra, e che vede? Su la seggiola, a piè del letto, vede steso un
secondo vestito nuovo, più bello e più ricco di quell’altro riposto, un vestito da Regina.
Frugò nel cassettone, trovò un vestituccio smesso ma più sdrucito e più stinto del primo, e lo indossò; nascose quell’altro nell’armadio, per via della sorella.
La sorella che non le aveva badato il giorno avanti, vedendola così cenciosa, cominciò a sgridarla: «Zoppina sudiciona! E dell’altro vestito che n’hai fatto?»
«L’ho dato a lavare.»
Si contentò della risposta e si mise alla finestra.
Da qualche tempo aveva notato che il Reuccio, passando, alzava gli occhi verso la facciata della casa loro, come se cercasse qualche persona che non c’era; scorreva con lo sguardo tutte le
finestre, e abbassava gli occhi scontento.
«Ma, forse deve fingere di non vedermi, per timore del Re suo padre!» ella pensava. E insuperbiva più che mai.
Quel giorno, il Reuccio, passando, alzò secondo il solito, gli occhi alle finestre, come se cercasse qualche persona che non c’era, e, abbassatili scontento, spronò il cavallo e tirò via.
Quel giorno ella fu così cattiva con la zoppina, che la poveretta piangendo si mise a gridare: «Ah nonnina, nonnina, vi siete scordata di me!»
E la sorella, inviperita: «Te la do io la nonnina!» E picchia. «Te la do io la nonnina!» E picchia. Le lasciò le lividure.
La notte, la zoppina: «Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me.»
«Ci penserò io! Ci penserò io!»
Svegliatasi, cerca tastoni la veste, e al tatto si accorge che la stoffa era un’altra. Apre gli scuretti della finestra, e che vede? Su la seggiola, a piè del letto, vede steso un terzo vestito
nuovo tutto ricamato d’oro, tempestato di pietre preziose: neppur la Regina doveva averne uno pari.
Questa volta era inutile frugare nel cassettone; ella sapeva benissimo che non aveva altri abiti smessi. Come fare, per via della sorella?
Non sapeva risolversi ad indossare uno di quelli; intanto la sorella, di là, gridava: «Zoppina! Zoppinaccia! Non senti dunque, zoppina del diavolo!» E le si rovesciò in camera, furibonda.
Visto quell’abito da Regina, rimase di sasso. «Di chi è?»
«Non lo so.»
«Chi te l’ha dato?»
«Non lo so.»
«E tu perché in sottana?»
«Non ho più vestiti da indossare: me l’han portati via.»
«Zoppaccia, non me la dài ad intendere.»
Per acchetare la sorella, la poverina, mezzo sbalordita, le raccontò tutto: del fiorellino, della voce udita di notte, degli altri vestiti trovati su la seggiola; e glieli fece vedere.
Colei non voleva crederle. «Zoppaccia, non me la dài ad intendere.» Prese i vestiti e il vasetto col fiore e li portò in camera sua. La zoppina dovette indossare un abito vecchio della sorella.
Ci nuotava dentro e pareva più buffa che non era.
«Vo’ provar io!» disse la sorella maggiore.
E la notte appresso, spento il lume, cominciò a dire: «Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me!»
«Ci penserò io! Ci penserò io!»
Rimase stupita. Dunque la zoppina non aveva mentito!
E la mattina, svegliatasi, cercò tastoni la veste; al tasto s’accorse che la stoffa non era quella. Aperse gli scuretti della finestra, e che vide? Su una seggiola, a piè del letto, vide steso un
vestito vecchio, di canavaccio, tutto sbrendoli e frittelle. E nell’armadio, dov’ella aveva riposti i tre bei vestiti, ne mancava uno, il migliore.
«Ah, zoppaccia del diavolo! Sei stata tu!» E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure.
Però volle ritentare: «Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me!»
«Ci penserò io! Ci penserò io!»
Smaniava che si facesse giorno, per vedere se le accadeva come la mattina avanti. Le accadde peggio. Su la seggiola a piè del letto trovò steso un vestito fatto di scorze di albero imputridite. E
dall’armadio ne mancava un altro di quelli ripostivi, il migliore.
«Ah, zoppaccia del diavolo! Sei stata tu! Sei stata tu!» E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure.
Caparbia, volle ritentare; ma la mattina seguente, non solo non trovò nulla né sulla seggiola né nell’armadio, ma fin il fiorellino rosso era sparito dal vasetto, lasciando nella camera un puzzo
che ammorbava.
«Ah, zoppaccia del diavolo! Sei stata tu!» E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure.
Il giorno dopo si sparse la notizia ch’era stato scoperto un furto nella guardaroba della Regina: mancavano tre abiti di gala, abiti di un valore inestimabile; tutta la corte era sossopra; il Re
e la Regina su le furie; i Ministri spaventati della collera reale perdevano la testa.
Il Re li aveva radunati a consiglio. «Se fra tre giorni non mi trovate il ladro, vi faccio impiccare tutti in fila!»
Eran passati due giorni, e i poveri Ministri si tastavano il collo. Del ladro, nessuna notizia.
E il Re: «Domani all’alba, vi farò impiccare tutti in fila!»
I Ministri pensarono di mettere una sentinella a ogni porta e far perquisire tutte le case. Le guardie rovistavano da per tutto, ma non trovavano niente. Andate in casa delle due sorelle, cerca,
ricerca, fruga, rifruga non trovarono niente neppur lì.
La sorella maggiore intanto, di nascosto dalle guardie, borbottava nell’orecchio della zoppina: «Zoppaccia ladra! Zoppaccia ladra! Che tradimento volevi farmi!»
La povera zoppina, atterrita di veder tanti brutti ceffi, non rispondeva nulla. E pregava dentro di sé: «Nonnina mia, aiutateci voi! Aiutateci voi!» Pregava anche per quell’altra.
Una guardia, più sospettosa dei compagni, tastata la materassa del letto della sorella maggiore, disse: «Scucite qui.»
Scuciono e fra la lana eccoti gli abiti regali di gala, proprio quelli trovati dalla zoppina su la seggiola in camera sua.
«La ladra è lei! La ladra è lei!» urlava la sorella maggiore.
Ma le guardie le acciuffarono tutte e due, e le condussero in carcere. La zoppina neppure piangeva; guardava attorno, stupefatta. L’altra pareva impazzita: «La ladra è lei! La ladra è lei!»
Nella prigione, le chiusero in due stanze separate.
La zoppina, al buio, pregava a mani giunte: «Ah nonnina, nonnina, pensateci voi per me!»
«Ci penserò io! Ci penserò io!»
Si volse dalla parte d’onde la voce veniva e, nel buio, vide il fiorellino rosso che luccicava come un pezzettino di carbone acceso. A poco a poco quel luccichio crebbe, crebbe, illuminò tutta la
stanza, e fra lo splendore comparve una bellissima donna che non toccava terra coi piedi, e pareva fatta tutta di luce, carni e vestiti.
«Sono Fata Fiore; mi chiamano così perché un mese son creatura vivente e un mese fiore: è il mio destino. Tu mi hai raccolto, mi hai ripulito, mi hai rimutata l’acqua due volte al giorno, mi hai
salvato dal penare. Ora son qua io per te!» E detto questo, scomparve.
La mattina il Reuccio, nel punto di montar a cavallo, vide per terra un fiorellino rosso; uno degli scudieri stava per metterci il piede sopra.
«Bada! Bada!»
Se lo fece raccogliere, e rimase incantato del gratissimo odore che il fiore mandava; un odore di paradiso.
Subito gli venne in mente la zoppina, a cui aveva molto pensato dal giorno che la raccattò da terra come quel fiore: gli era parsa tanto buona, tanto gentile, quantunque non bella. Non l’aveva
più riveduta; e non s’era mai saputo spiegare perché pensasse così spesso a lei avendola vista una sola volta. Si mise il fiore all’occhiello, e quando tornò a palazzo, lo ripose in un vasetto
con l’acqua, in camera sua; lo chiamò il Fiore della zoppina.
La notte, sul punto di addormentarsi, a un tratto ode: «Psi! Psi! Psi! Psi!»
Accese subito il lume, guardò attorno stupito; non c’era nessuno.
Poco dopo, di nuovo: «Psi! Psi! Psi! Psi!»
«Chi sei? Che cosa vuoi?»
«Sono Fata Fiore! Ascolta bene quel che ti dirò: ma non accendere il lume.» E Fata Fiore gli raccontò la dolorosa storia della zoppina.
Verso la fine il Reuccio piangeva. Non attese che fosse giorno, e corse dal Re suo padre. Rifece il racconto della Fata e poi si gettò al piedi del Re: «Maestà, fatemi sposare questa zoppina! La
Reginotta dev’esser lei.»
Il Re non disse di sì né di no. Ma quando gli parve l’ora, diede ordine: «Conducete qui le due ladre.»
Le guardie andarono prima alla prigione della sorella maggiore. Tutta arruffata e sconvolta non sembrava più lei; pareva una Strega. L’ammanettarono e la introdussero al cospetto del Re.
Aperto l’uscio della prigione dov’era rinchiusa la zoppina, le guardie si arrestarono meravigliate su la soglia. La nera stanzaccia s’era trasformata in un magnifico giardino fiorito, e la
zoppina, così bella da non riconoscersi, con indosso un abito sfarzosissimo, coglieva fiori e ne faceva tanti bei mazzi.
«Questo pel Re, questo per la Regina, e questo pel Reuccio che sospira.»
Subito il Re e la corte andarono alla prigione per condur via la zoppina con tutti gli onori di Reginotta.
La sorella maggiore, appena la vide, diede in ismanie e furori: «Ah! Zoppina ladra! Mi hai rubato anche il Reuccio! Possa tu morire di mala morte, zoppaccia ladra!»
Invece morì lei di mala morte; perché il Re non volle farle grazia, vedendola così cattiva fino all’ultimo contro la sua buona sorella, che implorava per essa il perdono reale.
Diventata Reginotta, la zoppina che per virtù di Fata Fiore non era più zoppina, a ricordo del suo passato, volle esser chiamata sempre a quel modo; anzi, quando compariva in pubblico, affettava
con grazia di zoppicare un tantino.
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Lei era lì, ferma, in ascolto. Passeggiava tra gli alberi coi piedi nudi, nell’erba. Era già sera, la luce del crepuscolo presto avrebbe
lasciato spazio al buio ristoratore e profondo nel quale le stelle possono risplendere della loro bellezza struggente.
La brezza carezzava le foglie che stormivano piano. C’era un’aria di attesa, e lei rimaneva lì, in silenzio, gli occhi chiusi. Qualcosa dentro di sé la portava a chiudere gli occhi, nonostante la
bellezza della collina. Spesso chiudeva gli occhi per escludere il mondo.
Si sentiva stanca del mondo, molto spesso.
Fin da piccola chiudeva gli occhi per chiuderlo fuori, quel mondo chiassoso, fuori da sé, per non permettere alla sua violenza di entrare e farle male. Troppo spesso il mondo degli uomini era
duro, brutale e tanto, troppo rumoroso. Un mondo confuso, caotico e violento negli atti compiuti quanto nelle emozioni che procurava, un mondo che sembrava offrire solo vincoli e
compromessi.
La opprimeva, quel mondo, spesso lo sentiva nel petto bruciante come qualcosa che tentava di ghermirle il respiro e portarglielo via. Allora lei cercava di tornare alla Natura di cui si sentiva
parte, a quella vita “vera” che, se comprende la morte, è sempre per vedere rifiorire la vita. Per questo si era ritirata sulla collina quella sera, ed aspettava, chiusa e protetta nel buio del
suo silenzio. Aspettava qualcosa, che cosa non lo sapeva di preciso nemmeno lei, era solo una sensazione molto forte che si portava dentro da tempo…quella di dover prima o poi
incontrare…chissà…
Si scosse e riprese a camminare, piano. Era lì in piedi, vestita dello stesso colore della sua pelle, chiara e diafana da sembrare azzurrina, come la luce della Luna che stava salendo, tonda,
piena, confortante. Quante volte aveva pensato alle creature dei miti e delle fiabe, agli abitanti di un regno fatato…sarebbero dovuti esistere, pensava, e si sarebbero dovuti incontrare prima o
poi, di notte, nei luoghi in cui la Natura tanto amata era ancora vergine, o quasi…
Un fruscio, alle sue spalle.
Si voltò appena, e lo vide. Era lì, immobile, dietro di lei. Ebbe un tuffo al cuore, per un attimo le sembrò che il sangue le scivolasse via, ma si riebbe immediatamente tanto l’aria era calma e
rassicurante. Solo, si disse, allora è vero…allora…esistono…
Seminascosto dall’ombra del fogliame, lui la osservava immobile come l’aria della sera inoltrata. Solo il viso spiccava sotto la luce della Luna. Un viso senza età, dai decisi tratti maschili
come scolpiti in una carne ombrosa. I lineamenti evocavano qualcosa di antico, arcaico, ed insieme oltre il tempo. La fronte spaziosa e l’attaccatura dei capelli, che ai lati si orientavano verso
l’alto, forgiavano impressioni di mitiche piccole corna.
Gli occhi di lei scesero e indugiarono un attimo, sorpresi, sui piedi della creatura, i piedi più arcuati e sospesi che avesse mai visto, evocanti lo slancio elegante, leggero e possente delle
capre di montagna. Un fauno.
Lei chiuse gli occhi. Un fauno, si disse ancora. Una creatura mediterranea che apparteneva al mito, al passato, al segreto regno degli antichi dei della Terra. Un’eco quasi umana e addolcita del
dio Pan dai piedi caprini, l’antico protettore e custode della Natura e della sacralità dei riti d’amore.
Il brivido che l’attraversò dalla testa ai piedi la riscosse. Aprì gli occhi. Lui era sempre lì, come una statua, e la guardava con un’intensità a lei finora sconosciuta.
Lei ebbe paura. Si sentiva attratta. Il fauno la attirava, come la Terra attrae i corpi, come il Cielo aveva sempre attratto la sua anima. Il fauno era una creatura insieme celeste e terrena,
evocava in lei risonanze arcane, sconosciute, misteriose.
Adesso l’aria era densa, come il silenzio tra loro. Un silenzio carico di elettricità. Il fauno era lì, per lei.
Lei non si mosse, sentiva solo crescere in sé un’onda che le cambiava il respiro. Odorava di sottobosco, di terra fertile e d’acqua di mare, il fauno, mentre si protendeva verso di lei rapido e
le cingeva la vita. Lei si irrigidì. Poi percepì un calore che la scioglieva. Era forte e dolce, delicato e potente insieme, il fauno. Aveva qualcosa di selvatico e nello stesso tempo
profondamente saggio, e non era aggressivo, né invasivo: era semplicemente lì, con lei, presente. Il senso del pericolo la abbandonò, e così pure il timore di essere violata.
Lei richiuse gli occhi, come se fosse troppo quel che vedeva, o forse quel che sentiva e provava. Si rifugiava dentro ancora una volta, nei luoghi conosciuti della sua anima, nelle sensazioni
rassicuranti e nei ricordi che la facevano sentire protetta.
Il calore che emanava dal corpo del fauno la riscosse. Ogni volta che lei pareva andarsene chiudendo gli occhi, lui la richiamava e l’attirava a sé col suo tocco caldo e avvolgente riportandola a
se stessa, al presente, il suo presente. Adesso lo sguardo del fauno era così intenso, vicino e penetrante che le riusciva difficile sottrarvisi. Il magnetismo di quello sguardo la affascinava,
la spingeva ad andare oltre se stessa, o forse oltre ciò che lei conosceva di sé… la portava inesorabilmente verso di lui, o meglio, verso ciò che egli rappresentava.
Era la Vita, il Presente, l’Amore senza memoria.
Lo sguardo del fauno, nei cui occhi si vedeva riflessa come in uno specchio terso, la chiamava, perentorio. Sembrava dirle “Guarda, resta, apri gli occhi, non lasciarti portare via”… Il cuore di
lei sembrava volesse scoppiare. E si sforzò di tenere gli occhi, ora aperti, nei suoi. Da sguardo a sguardo, da cuore a cuore sembrava dirle il fauno, senza più fuggire, senza nascondersi,
richiudersi o proteggersi, senza lasciar spazio a ricordi altri che non fossero il presente, “quel” presente magico in cui si consumava un rito antico di trasmissione di conoscenza. Era un dono
troppo grande per potervisi sottrarre. Un altro mondo.
La presenza del fauno evocava una forza possente e dirompente come il vento, come il mare. L’impeto e la dolcezza potente e liquida di quel mare la pervadevano in ogni ricettacolo del suo essere.
Il calore, l’intensità del fauno era avvolgente e penetrante come il profumo del bosco all’alba, appena piovuto. E toccava in lei corde fino allora sconosciute.
Finalmente lei sostenne lo sguardo. E sentì finalmente lo sguardo del fauno penetrarle ovunque, nell’anima. Le barriere del cuore si infransero e dissolsero. Erano Uno.
Un solo respiro, un solo pulsare, un solo sentire oltre la vita, oltre il mistero, oltre il tempo.
Dagli occhi del fauno ai suoi occhi, dall’essenza del fauno alla sua essenza… scaturiva ora in lei la conoscenza di segreti antichi e arcani misteri appartenenti alla Vita e alla Natura stessa, a
quell’Amore che mai si consuma e sempre vede la vita nascere e morire per nascere di nuovo, nel nome della Conoscenza.
Tra loro non vi era più distanza, o differenza. Vibravano insieme, all’unisono.
Allora tutto iniziò a vorticarle intorno, e le sembrò di venire risucchiata via da tutto ciò che di sé e del mondo credeva di sapere e di conoscere prima, prima di quel momento rivelatore in cui
la Verità le appariva senza più veli. Tenne gli occhi negli occhi del fauno, sapendo che quello sguardo era il solo ponte che ancorava alla realtà, la Realtà Trascendente che appartiene allo
spirito immortale oltre qualsiasi veste, oltre ogni scenario nel quale recitare una singola piccola vita.
Quello sguardo era il varco, la Soglia tra l’umano e il Divino.
Le parve di morire, e si lasciò morire, pronta, spalancando gli occhi senza più resistere. Poi lui la lasciò. Dolcemente, lentamente come il mare che si ritira dalla spiaggia, il fauno la lasciò
senza abbandonarla. Indietreggiava, il fauno, ritirandosi nel bosco folto, senza distogliere il suo sguardo dagli occhi di lei. Rimase una piccola luce brillante per qualche istante tra le
foglie, il riflesso della Luna ormai alta negli occhi accesi del fauno. E anche quel riflesso svanì. Era sola.
Forse non l’avrebbe più rivisto, o forse l’avrebbe incontrato ancora, nel bosco. Nella realtà sarebbero stati sempre insieme, in un presente eterno. Il fauno non sarebbe stato un ricordo, bensì
una memoria impressa indelebilmente nella sua anima, nella sua coscienza immortale. La magia di quell’incontro non avrebbe mai avuto fine, sarebbe stata sempre, oltre il tempo e lo spazio
immanenti, dentro lei.
Ora sentiva uno spazio enorme, sconfinato e sublime, in se stessa. Nel suo petto, là dove prima erano le barriere del cuore, adesso c’era solo vuoto, un vuoto accogliente, caldo e leggero, uno
spazio immenso fatto di libertà e di possibilità infinite, tanto ampio da respirarci dentro il Cielo e la Terra. Si sentì inondare dal calore, dalla gioia, da un’euforia mai provata. Qualcosa che
prima sembrava bruciarle nel petto ora brillava e scaldava dentro di lei come una piccola stella.
Il mondo non l’avrebbe oppressa mai più. Poteva permettersi di aprire gli occhi, ora, ed avrebbe visto e guardato con gli occhi del cuore…
È la forza ultima e prima…
È la Soglia…
Il primo impatto è sconvolgente
Perché è grandioso e può impaurire…
Poi si entra e tutto ciò che appare è straordinariamente limpido e quieto…
È la Conoscenza che ti circonda e ti avvolge…
E poi ti ritrovi di fronte a te stesso scoperto
E sprofondi nei tuoi occhi
E ti perdi e ti ritrovi…
E all’inizio l’angoscia di chi non sa che l’unica grandezza è l’Amore
E non lo vede…
E poi l’estasi di chi accetta il mistero più semplice e più complesso…
Davanti a te c’è l’Infinito
E tu sei infinito…
E ancora avanti, fino ad un’altra vita,
Fino ad un altro grembo che è l’Universo
Dove tu rinasci e muori ogni istante
Senza tempo
Perché vivere è morire
E morire è crescere
Muori a te stesso ed entrerai nel Tutto…
…En To Pan…